31/12/11

1° gennaio 2012 - Maria Santissima Madre di Dio

Dal Vangelo secondo Luca (2, 16-21)

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.




“Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.”
Maria: è lei la donna che oggi ci apre le porte di questo nuovo anno. Un donna splendida e silenziosa, grandissima e mite, annuncio incarnato della novità d'amore che viene ad abitare la terra.
Una donna, protagonista indispensabile, che con la sua sobrietà, la sua modestia, i suoi silenzi, ci insegna e ci guida per la strada vera della vita.
È lei che ci ha permesso di vedere gli occhi di Dio. Vederli nel figlio, Gesù, "nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli". E vederli, splendenti, nel suo stesso sguardo, nel cuore di una madre che ha saputo lasciarsi guardare da Dio, e a realizzato la grande bellezza di chi sa acconsentire al Suo amore.
Lei è per noi il segno che la speranza è possibile. Lei ci dice ogni giorno che Dio ama più del peccato e sa rendere nuove le nostre vite, se solo gli rispondiamo un semplice “sì”. L'umanità, caduta e vinta dalla colpa, è rinata nel grembo di una donna che ha lasciato al Signore facoltà di  “far risplendere per lei il suo volto e di farle grazia”. Ha dato vita a Chi le dava Vita, e ha meditato e custodito tutto questo nel silenzio, ha cullato il suo Signore nel grembo, tra le sue braccia e nel suo cuore. Ha accompagnato un figlio verso l'infinito amore di Dio, amore disposto alla croce perché l'uomo avesse la vita in abbondanza, e lei, che di tale abbondanza era stata riempita, ha tenuto il corpo dell'Amore tra le braccia dalla notte fredda di Betlemme al pomeriggio atroce e crudele di Gerusalemme.
A lei allora ci vogliamo affidare in questo nuovo inizio di anno, perché non sia una storia già percorsa quella che ci attende, ma una vita nuova, convertita dall'amore, risanata dal cuore delicato e coraggioso di Maria.
Ci affidiamo a lei, affinché da lei impariamo ad ascoltare, a concedere al Signore di abitarci, a custodire nel cuore le parole che lui ci vorrà suggerire.
Ci affidiamo a lei perché in questo nuovo anno che viene, in ogni nostro giorno di banale routine, di vita familiare, di lavoro affascinante o faticoso, di gioia o di sofferenza, cerchiamo e tendiamo verso un nuovo orientamento dello spirito.
Preghiamo lei perché nelle pieghe dei nostri giorni impariamo a scorgere i segni di Dio e a riconoscere il suo sguardo e la sua voce.
E ci auguriamo che il nostro cuore, finalmente disposto all'amore, possa anch'esso invocare che “Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto” e ci guidi ad amare l'uomo come Lui lo ama.

24/12/11

25 dicembre 2011 - NATALE del Signore

Dal Vangelo secondo Luca (2, 1-20)

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».
Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.




La Parola creatrice di Dio, il suo amore infinito per l'uomo, oggi “si è fatto carne, ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”, con noi, nelle nostre case, nella nostra vita. Una Parola che da sempre parlava ai nostri cuori, non ha esitato, per amore, a farsi vita della nostra stessa vita, passo dei nostri stessi passi. Ed il volto di Dio per amare l'uomo, la sua "incarnazione", è il più grande e primordiale inno alla vita che l'uomo conosca: un bambino.
E ogni bambino è canto al Vita perché mai visto, diverso da tutto ciò che era prima. Ogni bambino, quando nasce, cambia il mondo che gli sta intorno: un uomo e una donna diventano genitori, quattro genitori diventano nonni, una vita si appresta ad essere disegnata.Ma ogni bambino è un inno alla vita anche perché fragile di ogni fragilità, povero di tutto, incapace di ogni azione: l'unico sostegno e l'unico dono che un bambino possiede è l'amore. Un bambino vive dell'amore che lo circonda, e scambia solo amore con chi gli sta accanto.
Così, come ogni Natale, ci troviamo oggi di fronte al paradosso di un Dio-neonato, un Dio- annuncio di novità, ma un Dio fragile, un Dio indifeso. Il nostro Dio, il Verbo, il Figlio unigenito, oggi è una piccola cellula d'amore che si sprigiona da una sperduta mangiatoia di Betlemme: nulla di più umile, nulla di più ordinario, nulla di più misero, e insieme nulla di più miracoloso e straordinario.
Spesso ci è più facile credere in un Dio onnipotente, artefice di ogni sorte, padrone del modo e dei suoi destini, e dimentichiamo il segno che Lui stesso ha scelto quando è stato il momento di manifestarsi, di abitare in mezzo a noi: essere il più fragile degli uomini, un bimbo che non ha nemmeno un posto dove nascere. E questo Natale allora diventa per noi il momento di fermarci a riflettere, e di vincere la nostra costante tentazione di cercare nella fede una strada per migliorare la nostra fortuna ed il nostro presunto benessere. Certo il nostro Dio avrebbe potuto scegliere di guarire tutte le malattie, di eliminare tutte le sofferenze. Invece fa della debolezza, della vulnerabilità il segno distintivo della sua nascita. Come a dire a tutti i deboli del mondo, sono con voi; a tutti i poveri, sono uno di voi. Come a dire a chi soffre, a chi ha paura, so cosa significa, ho provato anch'io le stesse sofferenze e le stesse paure. E proprio questo essere “con-sorti” di Dio, avere un Dio più vicino di quanto noi stessi possiamo, è il miracolo che ogni anno celebriamo. Ma un Dio nuovo e vero al nostro fianco è comprensibile solo agli occhi dei “pastori”, solo agli occhi di chi ha ancora bisogno di vivere per amore, solo a chi comprende la fragilità per esserne assiduo compagno, solo a chi sa vedere il mondo con realismo e proprio per questo sa gioire della Vita quando, a dispetto di tutto, trionfa. Così oggi anche noi con i pastori vogliamo andare "senza indugio" incontro a questo bambino, dopo tante settimane di attesa. Vogliamo cantare l'inno di gioia che nasce dai cuori che hanno imparato a guardare la vita vera, le cose importanti, la bellezza della propria umiltà e semplicità. Vogliamo “gioire nel Signore”, perché “oggi la luce risplende su di noi”, e nella strada che credevamo arida e distratta abbiamo trovato un Compagno di viaggio, che ci cammina al fianco proprio nei momenti di maggiore difficoltà. Vogliamo stupirci per un Dio che abita la nostra vita condividendola, sempre ed in tutto, insegnandoci che amare non è risolvere i problemi di altri, ma andare al loro passo, soffrire quando soffrono e, poi, gioire insieme quando la fatica si placa.
Allora in questo Natale piegheremo le nostre ginocchia davanti al mistero di un Dio, che supera persino la Parola, per accompagnarci fino sull'uscio delle nostre strade, per insegnarci a non temere, insegnarci a gioire di gioia profonda, insegnarci ad amare di amore totale. 

22/12/11

18 dicembre 2011 - IV domenica di AVVENTO - anno "B"

Dal Vangelo secondo Luca (1, 26-38)

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.






È un giorno qualunque, in una casa qualunque. Una ragazza abbraccia con amore la sua normalità. E' una ragazza speciale, con una vocazione speciale, ma vive semplicemente la sua ordinarietà. E in questa casa, in un piccolo paese ai confini del mondo, avviene l'evento della storia. E questo evento assume la stessa luce domestica del luogo in cui avviene e della ragazza che ne è protagonista. Allora vorremmo, oggi, avvicinarci e guardare ciò che accade tra le mura della casa di Nazaret, in quell'angolo buio della storia, che si trasforma in luce per il mondo.
Ci accostiamo e vediamo l'arrivo di un ospite, o meglio di un messaggero dell’Ospite. Gabriele si fa accogliere da Maria, si fa ospitare nella sua piccola casa per darle un messaggio, per annunciare, a lei e al mondo, che un altro Ospite sta per arrivare. Ed entrando in casa, porta la gioia, quella gioia dirompente di chi sa che una porta si è aperta, e che ogni volta che una porta si apre, è sempre l'inizio di una relazione, di una storia: "Rallegrati, il Signore è con te".Chissà se gli angeli provano emozioni? Ci piace pensarlo, ci piace immaginare che il saluto di Gabriele sia colmo di emozione e stupore davanti alla possibilità che si compia un miracolo così grande, davanti alla donna da cui dipende la salvezza dell'umanità, davanti all'annuncio di quel miracolo consueto ma immenso, che accade ogni volta che una vita che prende forma, e cresce nel grembo di una madre.E' strano, allora, per un istante volgerci indietro, e guardare le porte chiuse delle nostre case, le paure dei nostri giorni, le notizie gridate dei nostri giornali. E' strano pensare alla gioia che può portare un ospite accolto nella nostra casa, alla nostra tavola. Accolto ed ascoltato. Ed è strano chiederci se mai ci sia venuto in mente che ogni ospite potrebbe essere per noi, messaggero di Dio...
Ma torniamo a Nazaret. Maria è turbata, non capisce. La gioia ed il timore vanno spesso di pari passo. Ogni realtà che superi le nostre speranze ci lascia a bocca aperta, ci turba, ci blocca. E Maria in quel momento, sentiva intorno a sé la potenza di un Amore che nessun uomo ha mai potuto contenere, e che lei avrebbe dovuto portare nel grembo. Ne sentiva la presenza, la gioia traboccante, la grandezza umile, e, per un istante, ha provato timore.
E quel timore assomiglia un po' al nostro, quando ci sentiamo chiamati, così come siamo, a piccole o grandi imprese d'amore. E' il timore di ciascuno di noi, quando ci accorgiamo che la nostra fragile umanità vive ed è feconda solo se sappiamo accogliere il progetto di Dio su di noi, ma quel progetto ci sembra enorme, faticoso, irrealizzabile.
E Maria, allora, si fa coraggio, anche per tutti noi, e pone domande. Si fa coraggio perché, per lei, la relazione con il suo Signore è un'abitudine. Pone domande perché la preghiera è, in lei, relazione costante, comune. Ed è solo in questa relazione abituale che può avvenire il miracolo: oggi la sua preghiera quotidiana è divenuta carne, perché nel tempo la preghiera quotidiana era già divenuta relazione.
E  con questi occhi guardiamo anche alla nostra preghiera, ai nostri riti, e ci chiediamo quanto essi siano relazione: relazione abituale e feriale con il nostro Signore, relazione abituale e feriale con tutti gli incontri d'amore in cui ci è chiesto di riconoscerLo, e metterci in gioco.
E vorremmo che il saluto dell'angelo, oggi per noi divenuto preghiera, ci insegnasse la strada per entrare nel mistero di questa relazione, per abituarci ad ascoltare le parole dei messaggeri, e ci aprisse la via per imparare ad accogliere, come Maria, il progetto di Dio su di noi. 

14/12/11

11 dicembre 2011 - III domenica di AVVENTO - anno "B"

Dal Vangelo secondo Giovanni (1, 6-8. 19-28)

Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa».
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».
Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.




Giovanni il messaggero, Giovanni il precursore, Giovanni la voce che grida nel deserto.
Ed è proprio da questo deserto che oggi vogliamo partire. Dal deserto, perchè ci assomiglia. Assomiglia alle nostre solitudini, ai nostri dubbi e tentennamenti. Assomiglia alle nostre case, chiuse su se stesse per paura del mondo che le circonda. Assomiglia alle tensioni che viviamo nei confronti dei nostri figli, che temiamo possano incrociare troppa cattiveria sulle loro strade.
Ma di questo deserto, Giovanni ha fatto luogo di annuncio, di cambiamento, di speranza, di novità. In questo deserto Giovanni è stato una voce. E questa stessa voce, ci sembra, potrebbe essere la nostra. Anche noi "non degni di chinarci per slegare i lacci dei sandali" di Colui che deve venire, ma anche noi capaci di urlare nel deserto.
Sì, lo possiamo, ne siamo convinti. Possiamo gridare la nostra speranza, possiamo gridare la nostra fiducia nella vita, anche in questo deserto. Lo possiamo nella nostra vita di coppia, che non è perfetta, e non lo sarà mai, che è abitata dalle nostre piccolezze e dalle nostre fatiche, che combatte ogni giorno con le nostre piccole infedeltà, ma che non teme di sprecare l'amore, di colmare e di lasciarsi colmare dalla presenza dell'altro. Lo possiamo con i nostri figli, camminando noi, dritti, nel deserto e trasformandolo in quel terreno opportuno per incontrare l'essenziale. Possiamo uscire dal nostro deserto per avviarci nel deserto di Giovanni, quello in cui "un uomo mandato da Dio, venne come testimone per dare testimonianza alla luce."
Un deserto che diventa luogo di riscoperta, luogo di rinascita, luogo adatto per l'incontro con il senso vero delle cose. Un deserto che è luogo di testimonianza. E di questa testimonianza Giovanni sentiva il bisogno, l'urgenza: "Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce." E la sua è stata una testimonianza senza tentennamenti, nella piena coscienza di sé e del suo compito. Giovanni era testimone perchè conosceva la sua missione e chi gliela aveva affidata. Sapeva di non essere il Cristo, ma sapeva anche che il suo compito di messaggero, era compito essenziale per la storia che si stava per compiere. E allora viene spontaneo domandarci: per noi, oggi, cosa significa "dare testimonianza alla luce"?
Noi, uomini e donne del nostro tempo, abbiamo mille occasioni per riconoscere i segni dei tempi, e testimoniare la nostra gioia, abbiamo mille opportunità per "non spegnere lo Spirito" che ci è stato donato, e che ogni giorno è davanti a noi per ricordarci da dove viene la nostra felicità.
Abbiamo occasioni per suscitare speranza in chi si sente sconfitto, o crede di non avere più le forze per combattere per la propria felicità, ogni volta che ci rechiamo al lavoro, o incrociamo sguardi assenti e soli nelle grandi città. Abbiamo occasione di alzare la nostra voce contro chi offende la povertà, e disdegna la vita, ogni volta che sappiamo trasformare in amore per l'uomo le chiacchiere da bar sulla politica. Abbiamo occasione di lottare dentro noi stessi con sincerità per riscoprire la nostra vocazione, ogni volta che siamo tentati di unirci alla schiera dei più, e non sappiamo volgere lo sguardo verso gli ultimi che abitano nella casa accanto, e che, per paura, vorremmo dimenticare.
A noi cogliere queste ed altre occasioni per riconoscere il Dio che c’è e che viene, e non sentirci dire, come i farisei: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”. 

04/12/11

4 dicembre 2011 - II domenica di AVVENTO - anno "B"

Dal Vangelo secondo Marco (1, 1-8)

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Come sta scritto nel profeta Isaìa:
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri»,
vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».






Siamo, oggi, al cospetto di un "inizio": l'inizio di un Vangelo, l'inizio di una storia nuova, di una buona notizia. Un inizio che porta a compimento ogni speranza, ogni racconto, ogni attesa. L'inizio di una storia personale, quella di "Gesù, Cristo, Figlio di Dio", che diventa storia personale di ciascuno di noi. E questo inizio, come l'inizio di ogni storia d'amore, è un inizio che non ha tempo. Non ha tempo perché già prima di realizzarsi era atteso, sperato, sognato, come ogni giovane ragazza sogna la propria storia d'amore, molto prima che essa abbia inizio. Non ha tempo perché, come ogni storia d'amore, va ridiscussa oggi giorno, va scelta mille volte perché si realizzi nel quotidiano. Non ha tempo perché, come ogni storia d'amore, implica la fine dell'uomo vecchio, per lasciare spazio ad un uomo nuovo.
È questo il "battesimo di conversione", che Giovanni proclamava: la fine di un tempo, perché un altro, nuovo, più vero, potesse arrivare. E così noi, ogni giorno, se vogliamo scegliere l'amore, siamo chiamati a metter da parte i nostri rimpianti, le nostre piccole vendette e i nostri risentimenti, per aprire ancora una volta il nostro cuore.
Già, perché l'attesa che viviamo in questo nuovo inizio dell'anno, è un'attesa che possiamo costruire, preparare in ogni giorno della nostra vita. Quando non cediamo ai ricatti dei nostri figli, e lavoriamo perché le ferite, lasciate dalla fatica di educare, siano riempite dall'amore, prepariamo l'attesa del nostro Vangelo. Quando non facciamo del nostro amore di coppia una partita doppia di contabilità, ma costruiamo, almeno lì, la gratuità per se stessa, prepariamo l'attesa del nostro Vangelo. Quando non ci facciamo schiacciare dal pessimismo di una società, che ci vuole forzatamente tristi, ma "alziamo la nostra voce con forza" consapevoli di poter ancora "annunciare liete notizie", prepariamo l'attesa del nostro Vangelo.
Ed è con gli stessi sentimenti che “tutti gli abitanti di Gerusalemme accorrevano a Giovanni", perché avvertivano che in quell'uomo le attese di un tempo e la fatica di costruire una speranza, trovavano compimento. Così anche noi sentiamo, oggi, che vale la pena prepararci, vale la pena alzarci dai nostri comodi divani, per ricominciare il viaggio dentro noi stessi, che “ci consola” e ci ridona la vita.
Preparare, prepararsi, perché "davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno." E preparare è un verbo davvero importante, un verbo del tempo comune e del tempo speciale, insieme. Si prepara un giorno indimenticabile, ci si prepara per un evento speciale, per un viaggio. Ma preparare è anche un'attività quotidiana, famigliare: i bambini preparano la cartella, a casa si prepara la tavola. E la gioia sta proprio qui: nella cura con cui il rito dell’amore si ricrea ogni giorno, e, nella gioia semplice e serena del vivere insieme e raccontare se stessi.
Preparare allora, significa sapere che il cammino non è mai piano, ma può essere spianato. Significa prestare attenzione, prendersi cura di qualcosa che accadrà, affinché ne scaturisca la nostra felicità. Significa riconoscere, anche nei nostri deserti, la gioia e la speranza che troppo spesso restano nascosti, e scoprire, che le vie del Signore, sono quelle che attraversano allo stesso modo i nostri giorni comuni e quelli speciali. E quando tutto intorno vorrebbe dire il contrario, è proprio allora che la voce del profeta si fa sentire più forte: “Consolate, consolate il mio popolo e gridate che la sua tribolazione è compiuta.” 

25/11/11

27 novembre 2011 - I domenica di Avvento - anno "B"

Dal Vangelo secondo Marco (13, 33-37)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».




Inizia un nuovo anno, e come ogni nuovo anno, ci trova ciascuno nelle proprie occupazioni, ciascuno a proseguire il proprio compito, il proprio lavoro, le proprie mansioni domestiche. Arriva un nuovo anno, ma quasi non ce ne accorgiamo, presi dalla nostra quotidianità, che non si interrompe ed anzi, tende a caricarsi di ansia per l'approssimarsi di un Natale, che troppo spesso diventa festa civile, di scambi di cortesia.
E così ci troviamo quasi a desiderare un mondo in cui arrivi pure l'inverno, ma non quel natale. Ci scopriamo a desiderare l'assenza dell'attesa, oppure un mondo in cui l'attesa sia così lunga e sfiancante, da perdere il suo significato e la carica di emozioni, sentimenti e speranze che porta con sé.
Ma persino la letteratura per bambini parla di incantesimi e di streghe, quando descrive un mondo in cui è sempre inverno e mai Natale.
Oggi invece inizia un nuovo anno, ed inizia con la più bella delle attese: l'Avvento, la venuta di quel Gesù che ci ha cambiato la vita. E l'attesa delle attese, l'evento che cambia la storia, non può, non deve, trovarci assuefatti e tiepidi, o addirittura indifferenti.
Vogliamo provare allora, solo per un attimo, ad immaginare ciò che accade in una comunissima casa, comunemente avvolta dalla propria routine quotidiana, in cui si annunci l'arrivo di un bambino: gioia, fermento, progetti, e mente costantemente rivolta a quel piccolo. Lei ricama corredini e segue corsi pre-parto, lui imbianca di nuovo la cameretta. E' l'attesa della vita, l'attesa di una novità che cambierà ritmi ed abitudini, e renderà un uomo e una donna persone nuove, tanto nuove da cambiare persino nome, e diventare Padre e Madre.
Questo bambino, che ancora non si vede, abita costantemente la vita dei due, e dei parenti, degli amici, di chi frequenta la casa. La definiamo attesa, ma è un'attesa abitata. Abitata dalla fiducia, abitata dalla speranza, abitata dalla fedeltà verso l'amore che si sente traboccare.
E così questo anno che inizia, è lì che ci vuole accompagnare, al cuore dell'attesa di Dio. Un Dio che già ora ci sta venendo incontro, e non sappiamo se arriverà "alla sera o a mezzanotte", nel buio dei nostri dubbi e delle nostre fatiche, "o al canto del gallo o al mattino", mentre ci sentiamo forti e pronti per affrontare la storia che Lui stesso ci ha affidato. Ma un Dio che ci ha voluti vigili, svegli, attenti nel preparare la nostra vita al Suo arrivo, perché il nostro cuore sia disposto a ricevere un amore che traboccherà, come sempre, le nostre fragili aspettative.
Quella che oggi comincia é l'attesa della gioia, l'attesa che non delude, l'attesa che ci serve per tendere nuovamente lo sguardo verso ciò che è essenziale nella nostra vita: l'Amore.
Allora vogliamo alzarci ed iniziare questo nuovo anno "vigili" verso il nostro cuore, che a volte, timidamente, si è lasciato indurire dalla quotidianità. Vigili verso le persone che ci vivono accanto, e di cui non sappiamo più scorgere la bellezza. Vigili verso quei figli che Lui stesso ci ha donato, perché non dimentichiamo che educarli è il primo frutto dell'amore. Vigili verso chi bussa alla nostra porta, per annunciargli con la nostra ospitalità, che sta per arrivare in mezzo a noi, un Amore a cui nessuno, purché lo desideri, potrà sfuggire. 

19/11/11

20 novembre 2011 - XXXIV domenica tempo ordinario - Festa di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell'Universo - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (25, 31-46)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».




“Siederà sul trono della sua gloria”. Oggi concludiamo l’anno liturgico, celebrando la regalità del nostro Dio: un Dio che siede sul trono circondato dagli angeli e che dona in eredità il suo regno. E, quasi a consentirci di essere pronti per il giorno della sua gloria, oggi Gesù ci indica con chiarezza la strada per ottenere questa eredità: “ tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.”
Una strada particolare per accostarci alla sua regalità, una strada che ci chiede di identificare il Re con chi ha fame e sete, con lo straniero, il malato, il carcerato. Una strada che ribalta la nostra idea di eredi, ma che è la stessa che Lui stesso ha percorso, nei suoi giorni terreni. E così, oggi, spogliati di ogni orpello o pretesa di onore personale, ci troviamo al cospetto del “come” spendere la nostra vita, per essere veramente suoi seguaci e per ottenere l’eredità preparata per noi da sempre: guardare gli occhi dei nostri fratelli, di chi ci vive accanto nell’anonimato, nell’indifferenza o, peggio, nell’abbandono, e lasciarci interpellare da quegli occhi. Occhi anonimi, certo, ma occhi che per noi, cui è stato spiegato il significato della vita, cui è stata mostrata la strada della felicità, non possono non essere occhi di Re. Perché solo nel momento in cui quegli occhi, quei volti, quelle necessità, diventeranno il comandamento del nostro agire, potremo aprire la nostra vita, la nostra storia, la storia della nostra famiglia, alla felicità. E comprendiamo come allora, tutto il nostro vivere, quel far fruttare i talenti di cui domenica scorsa abbiamo sentito narrare, diviene un vivere “per”, un vivere donando tutto ciò che abbiamo ricevuto, spendendo le nostre ricchezze d'amore senza rammarico e senza parsimonia. Vivere per riconoscere Dio nell'altro, vivere per imparare ad ascoltare la voce di Dio nelle infinite richieste d'amore che ci vengono dalla nostra quotidianità, vivere per spendere la nostra libertà, per giocarla rispondendo mille e mille sì alla domanda di accoglienza che ci viene dai nostri “fratelli più piccoli”.
E la prima strada per apprendere questa vicinanza, questa prossimità, la impariamo proprio nelle nostre case, palestre di relazioni, chiamate ad orientare la vita, a dirigersi verso il mondo, a non impadronirsi della bellezza dell’Amore, ma a nutrirsene regalandolo a chi bussa. Così, ripercorrendo nella mente le cose fatte o dette “per” il nostro coniuge, o “per” i figli, scopriamo quanto il “vivere per”, il fare dell’altro la nostra strada d’incontro con Dio, non esprima la rinuncia incondizionata alla propria libertà, né sia una masochistica forma di sacrificio, ma racchiuda il senso, il significato dell’eredità che attendiamo, l’orizzonte preciso di una scelta di vita, la direzione che Lui stesso ci ha indicato: “andare in cerca della pecora perduta, ricondurre all’ovile quella smarrita, fasciare quella ferita e curare quella malata, aver cura di quella grassa e forte”. Avere cura, rispondere con fiducia, e senza più alcuna paura, a chi ci chiede il rischio di amare. Dare il nome dell’amore ad ogni incontro o relazioni che costruiamo, ad ogni legame che stringendoci ci libera da noi stessi per aprirci a Lui. Avere cura delle fragilità altrui, lasciando che si mescolino alle nostre, senza nasconderci dietro un impaurito: “Quando mai ti abbiamo visto e non ti abbiamo servito?” Solo così potremo prepararci all’incontro più importante della nostra vita, alla relazione d’amore più speciale che ci attende, e solo così potremo, nei nostri semplici giorni, gustare la vicinanza di un Signore che “ci fa riposare su pascoli erbosi, ci conduce ad acque tranquille. rinfranca l’anima e ci guida per il giusto cammino.”

12/11/11

13 novembre 2011 - XXXIII domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (25, 14-30)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».




Servi “buoni e fedeli”, o servi “malvagi e pigri”? Una domanda che interroga il cuore dei nostri giorni, che chiede il senso della nostra esistenza. Una domanda che oggi sentiamo più che mai rivolta alla nostra vita di coppia e di famiglia.
Un giorno, infatti, “un uomo ci consegnò i suoi beni”, mise il tesoro del Suo amore nelle nostre fragili mani. Eravamo lì, davanti ad un altare, con le braccia aperte alla speranza ed al timore del futuro, e Lui ha colmato il nostro abbraccio riversandoci i suoi talenti. Ed oggi guardiamo a quella ricchezza e ci interroghiamo sul fatto che abbia prevalso la speranza e la fiducia oppure il timore. Perché a volte troppo amore fa paura, temiamo di perderlo, di sciuparlo se apriamo troppo le porte della nostra casa. Temiamo che quell'amore che ci è stato regalato possa scomparire, svanire, affievolirsi e allora ci chiudiamo a guardarci l'un l'altro negli occhi. Chiudiamo la porta, evitiamo ogni spreco e, giorno dopo giorno, diventiamo esperti “contabili” della nostra ricchezza. Come quel servo che, temendo il padrone, seppellì il talento, firmando la propria condanna.
E così, senza quasi accorgercene, scambiamo la ricchezza del possesso, con quella dell'amore, che sa moltiplicarsi solo quando è donato, speso, “sprecato” senza riserve. E davvero, sotterrando il talento che ci era stato donato, facciamo della vita a due la “tomba dell'amore”.
Ma oggi ci è indicata un'altra possibilità, un'altra via da percorrere: la via della moltiplicazione.
È possibile, anche per noi, superare la paura di essere i destinatari di un amore che supera ogni limite. È possibile accorgerci che il tesoro che abbiamo tra le mani è enorme, certo, ma Colui che ce lo ha donato non ha avuto timore nell'affidarcelo. È possibile non temere che la Sua luce splenda attraverso i nostri gesti, le nostre parole. Ed è possibile splendere senza presunzione se sappiamo riconoscere che il padrone della luce tornerà a “regolare i conti con noi”. E così accade di veder moltiplicare l'amore di un tempo, di sentirlo crescere nei giorni. E così anche saremo pronti a cercarlo con tenacia quando ci sentiremo smarriti, a difenderlo con ostinazione quando mille piccoli egoismi lo minacceranno, a spenderlo con generosità quando avremo timore che si stia spegnendo a coltivarlo con ogni scrupolo quando non riusciremo più a vedere il tesoro che è realmente.
Questo ci chiede oggi Gesù, lo chiede a ciascuno di noi, e a ciascuna coppia che ha osato, ed ancora osa, promettersi amore per l'eternità: Chi sei tu per avere paura dell'Amore? Sei figlio del Dio della vita, immagine del Dio dell'amore, relazione originata dalla Comunione, perché ti ostini a nascondere il Mio tesoro?
Oggi siamo chiamati più che mai a moltiplicare il tesoro che abbiamo, il tesoro che siamo quando diventiamo trasparenza dell'Amore, guardando al Signore come i nostri figli più piccini guardano a noi, unico riferimento del cammino. Siamo chiamati a rendere ragione di quella ricchezza di Dio che è dentro di noi, in tutti ed in ciascuno, in ogni amore che vive, in ogni amore che soffre, in ogni amore che fatica, in ogni amore che si incarna giorno dopo giorno nella fedeltà, nella pazienza, nei mille gradini scesi e saliti della scala della vita comune.
Perché moltiplicando la nostra, la Sua, ricchezza, noi così fragili, così spesso smarriti, così incerti nei passi, moltiplicando la Sua ricchezza daremo ad altri, inconsapevolmente, la possibilità di fare lo stesso. “Cammineremo, beati, nelle sue vie” e lasceremo che l'amore rompa gli argini della solitudine, della “privacy”, dell'anonimato e corra, finalmente, a mostrare la strada della felicità, della libertà, della ricchezza vera che non sbiadisce e non si consuma.

05/11/11

6 novembre 2011 - XXXII domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (25, 1-13)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».




“Dieci vergini presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge.” Sagge perché “insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi”, l'olio che permetterà loro di vegliare, di affrontare la notte e l'attesa, di aspettare lo Sposo anche quando tarda e la stanchezza ed il sonno tendono a prendere il sopravvento. La loro è una saggezza strettamente legata all'attesa, alla capacità di prevedere momenti difficili in cui la luce della lampada potrebbe farsi fioca, la fiamma vacillare e l'olio non bastare. Sono sagge perché si preparano a perseverare persino nel buio con il proprio lume tra le mani, nella speranza della festa imminente, che, grazie al loro olio, può divenire certezza.
Un tipo di saggezza che ai nostri giorni sembra ancora più difficile da trovare che non ai tempi di Gesù. Oggi sembra che nessuno sappia più aspettare: si trovano infiniti modi per riempire il tempo pur di non rimanere nell'attesa di qualcosa o di qualcuno di più importante.
Non sappiamo aspettare i tempi dell'amicizia, e il non sentirsi per un po', spesso equivale ad un addio.
Non aspettiamo i tempi di chi ci vive accanto, ed ogni parola, ogni fatica, ogni sorriso hanno valore solo nel momento in cui si realizzano e non raccontano più di un promessa antica che si rinnova ogni giorno.
Non aspettiamo i tempi dei nostri ragazzi, su cui decretiamo sentenza di lampada accesa o spenta, senza curarci di scrutare le riserve d'olio che forse hanno nascosto per mettere alla prova la nostra fiducia.
Non aspettiamo o non sappiamo aspettare, e forse così rinunciamo a fare festa con lo Sposo, rinunciamo alla festa dell'amore, quando arriva a condividere il banchetto della nostra vita.
Perché aspettare e amare sono azioni che spesso si accompagnano.
Aspettare non è inutile noia, ma esercizio di fiducia, di speranza, di tenerezza verso chi attendiamo. E procurarsi il proprio olio è la saggezza dell'amore: significa portare sempre con sé la scorta dei ricordi, la riserva delle motivazioni, la fedeltà alla propria vocazione. Solo con l'olio del nostro amore, potremo continuare a dare luce alla notte. Ed è per questo che l'olio delle lampade non può essere prestato, perché non si può amare con il cuore di un altro, non è possibile fidarsi con la fiducia di un altro, non si può sperare con la speranza altrui.
E questa saggezza dell'amore, che oggi ci sembra così difficile da ottenere, “si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta.”
Perché la saggezza dell'amore è già posta nel nostro cuore e chiede solo di essere ascoltata, quando il buio, la stanchezza, il disorientamento della notte tendono insidie alla nostra fede.
Allora oggi pronunciamo anche noi le parole del salmista “dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua.” Ti cerco, per imparare a trovare la luce che Tu hai posto tra le mie mani. Ti cerco per perseverare nel mantenerla accesa.

28/10/11

30 ottobre 2011 - XXXI domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (23, 1-12)

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».




“Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.”
Maestri, padri, guide: oggi è sul nostro ruolo educativo che ci sentiamo profondamente interpellati. Come educatori, e certamente ancora di più come genitori, desideriamo essere maestri e guide autorevoli per i nostri ragazzi. Desideriamo che ascoltino le nostre parole, che seguano i nostri passi, che si lascino guidare da noi. Desideriamo essere il modello a cui ispirano, o forse conformano, la propria vita. E all'ascoltare queste parole ci chiediamo con un po' di preoccupazione se per caso non stiamo andando in senso contrario rispetto alle indicazioni di Gesù. Ci stiamo forse sostituendo a lui? E, d'altra parte, come potremmo svolgere diversamente il nostro compito? Maestri, padri, guide: in fondo il mestiere di educare non è altro che questo.
Allora, oggi che Gesù ci mette in guardia dal trarne vanto, ci guardiamo allo specchio con una punta di stupore. Ciò che pensiamo e facciamo per educare i nostri figli, non parte dal voler “essere ammirati dalla gente”. Del nostro ruolo sentiamo piuttosto, non senza qualche brivido, la responsabilità che richiama: la fatica, la difficoltà e insieme la bellezza del crescere un figlio.
Ci sentiamo chiamati ad un compito straordinario, ma la nostra attenzione è rivolta a coloro ai quali mai legheremmo “fardelli pesanti e difficili da portare”.
Eppure un piccolo dubbio ci rimane. A volte capita che la grandezza di questo compito ci faccia sentire davvero un po' troppo simili a Dio. Capita che pensiamo ai nostri figli come nostre creazioni, frutto dei nostri meriti, indirizzati, grazie a noi, verso un futuro luminoso. Capita che quella gloria e quel potere cui prima non facevamo caso, si insinui nel nostro cuore e ci faccia sentire padroni dei nostri figli: del loro futuro, delle loro scelte, dei loro sogni, della loro vocazione. E capita anche, anche se ci dispiace ammetterlo, che “diciamo e non facciamo”. Capita che le nostre fulgide parole, le nostre dichiarazioni di principio, siano tristemente smentite dalle nostre scelte di vita, dai nostri comportamenti, dalle nostre reali priorità.
Ed ecco che le parole di Gesù oggi divengono una guida importante per noi.
Perché se c'è un solo Padre, è la Sua paternità che dobbiamo prenderne a modello. E se c'è un solo Maestro, sono i suoi insegnamenti quelli che ci è chiesto di riportare con le parole e con i fatti. Se c'è una sola Guida, sono i suoi passi che dobbiamo calcare, noi stessi, portando per mano coloro che ci è affidato di crescere.
E queste considerazioni ci spingono a ripensare al nostro ruolo, al compito che ci è stato affidato nel giorno stesso in cui abbiamo pro-creato, collaborato con Dio nel dono della vita e insieme ricevuto da Lui la creatura che oggi abbracciamo perché, attraverso di noi, imparasse a seguirLo e ad amarLo.
Per questo ora i nostri pensieri divengono preghiera e chiediamo all'unico Maestro, Padre e Guida di poter sempre riconoscere la dignità dei nostri e Suoi figli, non solo a parole, ma con i gesti di ogni giorno. E chiediamo davvero di poter essere noi per primi a farci discepoli, ad essere nel cuore figli di Colui che da sempre e per sempre ci educa all'amore.

21/10/11

23 ottobre 2011 - XXX domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (22, 34-40)

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».




“Amerai”, questa è la parola che incide i nostri cuori in questa domenica.
Amare è un verbo fin troppo utilizzato nei nostri giorni, talvolta persino abusato. È un verbo che pronunciamo così spesso da convincerci di conoscerlo bene, di possederne ogni segreto. E il più delle volte diamo ad esso un significato astratto, come se fosse un moto spontaneo dell'animo in risposta ad una emozione.
Ma “amare”, è invece il verbo forse più grande nella nostra lingua. Parola che esprime volontà, desiderio, slancio, gioia che deriva dalla gioia altrui. Amare è sì una risposta, ma non già ad un'emozione: risposta all'Amore. Solo quando l'Amore ci ha toccato, è entrato dentro di noi e ha trasformato il nostro cuore con la sua bellezza, solo allora potremo rispondere al suo appello di somigliargli, e cominceremo ad amare.
Come quando uno sguardo diverso dai mille che avevamo incrociato, ci ha regalato la gioia di esistere per qualcuno, e noi, a nostra volta, abbiamo risposto con un sì che prometteva eternità. E come quando alla posta del nostro cuore si è presentato l'Amore che è origine di ogni amore, ha chiesto spazio, ha promesso vita piena, gioia vera, e noi, in risposta, abbiamo compreso che un sì che forse poteva sembrare irrazionale, certo non era irragionevole, ma avrebbe dato un senso nuovo ad ogni nostro giorno, una direzione di felicità ad ogni nostro gesto.
Amare, allora, è una Parola da “fare”, da costruire, da vivere nella banalità e nella concretezza spicciola dei nostri giorni. E questo, a volte, ci mette in difficoltà.
Sarebbe più facile, a volte, rispettare un elenco, pur interminabile, di norme, che vivere “secondo verità”. Sarebbe più facile obbedire per dovere, che scegliere l'obbedienza all'Amore. Perché l'Amore chiama, e con la più grande umiltà, attende la nostra risposta. La Legge impone, dirige, ma non libera. L'Amore invece chiede alla nostra libertà, la fiducia totale dell'amante. Non si tratta di negare o sfuggire alla legge, si tratta di amarla, perché da essa passa la nostra vita e al nostra felicità.
Capiamo allora questo accostamento tra Dio e il prossimo. Un accostamento che forse prima ci sfuggiva: Dio, lontano oggetto di rituali preghiere, ed il prossimo, così concreto, così vicino, così fastidioso a volte. Ma ora vediamo che una volta conosciuto l'Amore, una volta lasciatolo entrare nel nostro cuore, una volta ascoltata la sua voce e la sua Parola, allora nulla è più impossibile. E come un giorno ci siamo accorti che il nostro amore di coppia, regalato al progetto di Dio, ci chiamava ad aprirci, ad accogliere, a generare per amore, così ora capiamo che l'amore di Dio e per Dio, “il grande comandamento”, genera da se stesso “il secondo, simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. E l'amore per il prossimo non è più un dovere, un gesto di carità, un peso, una norma di comportamento. Amare il prossimo è il frutto, la fecondità dell'amore per Dio. E potremo davvero pensare all'altro, ad ogni altro, come ad un fratello, figlio dello stesso Padre, ad un figlio, generato dall'amore di Dio. Non faremo meno fatica, forse, ma è la stessa fatica che sentiamo nel guardare ad un figlio ribelle o adolescente, la stessa fatica che viviamo nell'accettare la distanza in un'amicizia, la stessa, splendida, fatica di ogni amore.
Oggi allora, davvero, siamo posti faccia a faccia con la parola più importante della nostra vita. E capiamo che a questo amore possiamo dare significati assolutamente opposti: compimento della Sua legge, o finzione, surrogato, tradimento. E comprendiamo anche che su questo terreno, giochiamo tutta la nostra vita, perché solo qui, nella ricerca della verità dell'amare, possiamo scoprire la felicità, la gioia piena che non tramonta mai.

14/10/11

16 ottobre 2011 - XXIX domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (22, 15-21)

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».






Cesare e Dio. Le leggi dell'uomo, e le leggi di coscienza. Certo talvolta queste due realtà cozzano tra di loro, e possono divenire persino incompatibili, inconciliabili. Eppure ciò a cui Gesù si riferiva, allora come oggi, non era un conflitto tra Stato e Chiesa, tra legge civile e rispetto di formalità religiose.
L'attenzione del Figlio per il Padre è chiara ed evidente, in ogni parola, in ogni azione, in ogni consueto e banale gesto; al punto che Gesù nemmeno possiede la moneta a cui farisei ed erodiani fanno riferimento, e chiede loro di mostrargliela, stabilendo subito un ordine di priorità tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare.
Ma oggi è un'altra la frase su cui vorremmo porre la nostra attenzione: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?” Una domanda, come spesso accade, che appare quasi banale, insignificante, funzionale al discorso, ma che invece giunge diritta al cuore delle nostre vite. Se sulla moneta l'immagine e l'iscrizione sono di Cesare, cosa o chi porterà su di sé l'immagine di Dio? Ed ecco che torniamo a scoprirci moneta del nostro Signore, strumento perché a Lui sia reso quanto è suo. Ma non come oggetti inanimati, scossi e portati dal corso della storia, bensì come costruttori, collaboratori di quella storia di felicità che Lui ha sognato per l'uomo. Immagine di Lui da sempre, per vocazione e destino, e chiamati, passo dopo passo, giorno dopo giorno, a costruire ed edificare la nostra somiglianza, e la somiglianza del mondo con la pienezza dell'amore. Rendere a Dio la sua moneta, ciò su cui Lui ha disegnato la sua immagine, cioè noi stessi. Rendere a Dio la nostra vita, riscoprire che siamo di Dio, che apparteniamo a Lui. Non si tratta di obbedire o trasgredire la legge, ma di completarla, di superarla, di riempirla del suo significato più vero, rendendola degna dell'uomo. Si tratta di fare in modo che quell'immagine sia fedele a Colui che vi è rappresentato, e che il valore della moneta che siamo non si svaluti nel tempo, ma possa essere restituita per intero al suo Autore.
I nostri gesti allora, saranno sempre un rendere, un restituire. Ridare a Cesare ciò che è suo, senza falsi sconti, senza pensare che la coscienza del cristiano non abbia a che vedere con lo stato. Ridare a Cesare ciò che è suo, per amore della giustizia, per rispetto della vita, per onorare l'uomo che è immagine di Dio. E ridare a Dio ciò che è di Dio, cioè le nostre azioni quotidiane, le nostre scelte, le nostre prese di posizione, la nostra vita. Ridare a Dio ciò che è suo, sapendo che sua è la nostra storia, gli incontri, le occasioni, le relazioni, i legami. Sua è la voce che ci ha chiamato alla vita attraverso l'amore degli uomini, suo il sogno più nascosto di felicità, quello che guida i nostri slanci, le decisioni forse più incomprensibili, e insieme spinge la nostra quotidianità a superare la fatica, la stanchezza, la routine. É per Lui che i nostri pensieri, le nostre mani, il nostro amore, sono capaci di creare, di rendere il mondo più ricco, più bello, più vero.
Forse un giorno ci capiterà di dover scegliere tra Dio e la legge, e forse quel giorno non sarà nemmeno troppo lontano. Ma quel giorno, aver dato tutto di noi a Dio, aver reso a Lui il dono ricevuto dell'esistere, ci porrà al sicuro da subdoli fraintendimenti. E se sapremo chi è il riferimento della nostra vita, sapremo anche in che direzione andare.