25/05/12

27 maggio 2012 - Solennità della PENTECOSTE - anno "B"

Dal Vangelo secondo Giovanni (15, 26-27; 16, 12-15)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».




Oggi è Pentecoste, oggi è il giorno in cui “l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito, che ha stabilito in noi la sua dimora.” Per questo oggi possiamo gridare con i dodici di Gerusalemme, e con tutti coloro che, insieme a noi, hanno conosciuto l’amore di Cristo: “io gioirò nel Signore”.
Oggi è giorno di gioia perché capiamo che a ciascuno di noi, ad ognuna delle nostre piccole storie, è stato concesso di vivere non solo in compagnia di Dio, ma abitati da Lui. Questo è il grande dono che l’Uomo, il Compagno di viaggio, Gesù, ci ha fatto dopo il suo ritorno al Padre: essere abitati dalla stessa relazione d'amore che intercorre tra il Padre e Lui. Possiamo vivere e nutrirci della stesso Amore che fa di tre una persona sola, e questa presenza, lo Spirito, ci rende una sola famiglia. E fa di ciascuno di noi, testimoni della sua inesauribile fedeltà, una sola comunità.
E non sono parole vuote, lontane dalle nostre esistenze, se pensiamo a quel giorno in cui noi, un uomo e una donna, ci siamo innamorati. Quando accade, è quasi un uragano. Come un vento che irrompe in una stanza chiusa, come un solo fuoco che brucia, e poi si divide, irradiando dai volti. Quando un uomo e una donna si scoprono innamorati, si accorgono di capirsi, di parlare l'uno il linguaggio dell'altra. Si giurano amore, fedeltà, e sono felici, in pace col mondo, testimoni viventi della loro felicità.
Così quando verrà lo Spirito, ci dice Gesù, “egli darà testimonianza di me”.
E per noi che crediamo in un Dio follemente innamorato dell'uomo, è facile capire il racconto che Luca ci fa di ciò che avvenne in quel lontano giorno. Ci sono dodici uomini per i quali, finalmente, scocca la scintilla. Dopo essere stati corteggiati per anni, dalla Galilea fino a Gerusalemme, all'improvviso si scoprono innamorati di Dio, si trovano a ricambiare, almeno un poco, quell'amore folle. Per quell'amore ora sono pronti a dare la vita, diverranno strumenti attraverso cui lo Spirito potrà soffiare su altri e, come per contagio, nella storia, giungere fino a noi.
Per noi che viviamo il Matrimonio, il giorno in cui ci siamo innamorati è stato il seme di una nuova vita. Abbiamo iniziato a costruire un futuro insieme, e fa un certo effetto pensare a quel giorno come alla nostra personale Pentecoste: come al giorno in cui il nostro amore piccolo e fragile si è scoperto abitato da un disegno d’Amore infinitamente più grande. Leggiamo, come in un chiaroscuro, le parole di Paolo, “il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, e ci accorgiamo dei momenti in cui lo Spirito ha guidato la nostra famiglia, rispetto alle volte in cui discordie e invidie hanno minato la nostra felicità. E quelle stesse parole non ci appaiono più leziose utopie, ma capiamo che ogni volta che siamo riusciti a gustare la gioia piena del nostro amore, è perché ci siamo arresi a Lui, e abbiamo potuto raccogliere i frutti della Vita e della Verità che ci abita. Ci accorgiamo che nei nostri momenti luminosi come in quelli bui, lo Spirito ha sempre abitato la nostra casa, e che abbandonarsi a Lui non può che spingerci a fare come gli apostoli di un tempo, e raccontare a tutti “le grandi opere di Dio”.
Così ogni volta che lasceremo da parte noi stessi per “lasciarci guidare dallo Spirito, non saremo più sotto la Legge”, perché l’unica legge a cui saremo vincolati, sarà la legge dell’amore. E ci scopriremo capaci di coprire le nostre inevitabili mancanze con l’amore, impareremo le strade per rendere fertile un cuore inaridito dalla solitudine e dalla sofferenza, sapremo consolare il pianto della malattia, e le ferite dell’abbandono. Non avremo timore nel superare la rigidità dei giudizi e delle precomprensioni, non faremo fatica a scaldare l’indifferenza gelida di un luogo di lavoro o di un fast-food. Saremo solleciti e discreti nel raddrizzare i discorsi vuoti di chi non crede più nella esistenza di un amore concreto e possibile. Perché non saremo noi a farlo, ma Lui. Lui che ci da ogni forza, Lui che abita ogni nostro respiro e che viene a “lavare ciò che è sórdido, bagnare ciò che è árido, sanare ciò che sánguina. Piegare ciò che è rigido, scaldare ciò che è gelido, drizzare ciò che è sviato.”

18/05/12

20 maggio 2012 - ASCENSIONE del Signore - anno "B" -

Dal Vangelo secondo Marco (16, 15-20)

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.




La scorsa domenica Gesù ci esortava a restare, a fermarci in Lui e con Lui, e oggi invece ci dice: “Andate in tutto il mondo”. Un errore? Un controsenso?
A volte siamo tentati di crederlo. Siamo più inclini, noi piccoli e semplici uomini di Galilea, a rimanere immobili a fissare il cielo. Un po’ come i nostri ragazzi quando, pur rivendicando autonomia e libertà, temono il momento in cui dovranno assumersi le proprie responsabilità, e restano quasi paralizzati nello scoprire che siamo disposti a lasciali fare, a lasciare loro il compito di scegliere la strada da percorrere.
Ma Gesù che sale al cielo, non ci lascia soli nella prova, quasi a voler inconsciamente dimostrare che non ce la possiamo fare. Gesù con la sua partenza e con le sue parole, ci manda al mondo lasciandoci un carico di fiducia totale, la fiducia totale che viene dal suo Amore: irrevocabile, assoluto, incondizionatamente fedele. E quando ci manda, non ci manda allo sbaraglio. Dice “andate”, ma dice anche con quale scopo: “proclamate il Vangelo a ogni creatura”.
E allora comprendiamo che restare e andare sono solo due declinazioni della stessa missione, che Lui stesso ci ha affidato: la missione della gioia e dell’amore. Comprendiamo che quello che ci chiedeva la scorsa domenica e che oggi ci chiede è sempre e solo custodire e coltivare le nostre relazioni d’amore, per essere pienamente felici. Coltivare la nostra coppia, perché non confondiamo la fedeltà ad un progetto con la fissità noiosa della routine. Coltivare l’amore per i nostri figli, imparando da Lui a vivere le quotidiane ascensioni, i quotidiani distacchi che il nostro compito di educatori ci impone. Coltivare l’amore per loro, ed imparare la gioia di donare la libertà, sapendo che ogni nostro figlio, ogni nostro frutto, non è un possesso, ma è stato anch’esso pensato da Lui, per restare e per andare. Coltivare le nostre amicizie, cercarne sempre di nuove e di sincere, per imparare che l’amore non si può imprigionare in uno stereotipo, non si piega agli intimismi, ma è libertà, è come un fiume, che non può non irrigare ciò che incontra.
E coltivare l’amore e la gioia, come Lui ci ha insegnato con la sua vita e con la sua morte, non significa rinchiudersi meschinamente sulle proprie certezze, considerando un tesoro geloso la nostra amicizia con Dio. Coltivare l’amore e la gioia, significa lasciarsi permeare da queste, perché diventino annuncio, perché ad ogni creatura sia proclamata la buona notizia che la felicità esiste ed è possibile. Perché un cuore pieno di gioia parla senza parole, illumina anche nel buio, rispetta l’intimità dell’altro, senza ostentazioni, ma insieme si apre un varco nel cuore di chi incontra. E ugualmente un amore coltivato, è una amore che per sua stessa natura diventa “politico”, aperto e dedito al mondo.
Ma allora quello che Gesù ci chiede non è eroica generosità, o supino servizio: è lasciar uscire dai nostri cuori, dalle nostre normalissime vite, dalle nostre umili giornate, tutta la gioia e tutto l’amore che Lui ci ha regalato. E questi saranno i segni che ci accompagneranno: impareremo a coprire con l’amore, il nostro piccolo amore, le solitudini dell’anima che ci capiterà di incontrare, impareremo a scacciare con il calore della vicinanza, i demòni dell’isolamento, del disfattismo, della non-speranza. Parleremo lingue che pensavamo di non conoscere, perché impareremo a parlare con il cuore più che con le labbra, con i gesti più che con le parole. Prenderemo in mano i serpenti della maldicenza e della critica, e impareremo a bere qualche veleno, quando vedremo i nostri figli apparire “diversi” ed essere derisi, ma senza che questo rechi danno a noi e a loro, perché né i serpenti né i veleni potranno più uccidere la gioia, da quando l’Amore ha vinto ogni morte.
E tutto questo, perché il bagaglio che Gesù ci ha lasciato tornando al Padre, non è un bagaglio di schiaccianti responsabilità su cui pesa il giudizio, ma la consapevolezza che “il Signore agisce insieme con noi”, e che l’unico debito da saldare è quello dell’Amore. 

11/05/12

13 maggio 2012 - VI domenica di PASQUA - anno "B"

Dal Vangelo secondo Giovanni (15, 9-17)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».




Un comando, un ordine. Il Vangelo di questa domenica ruota tutto intorno ad un imperativo che siamo tenuti a rispettare, senza condizioni, senza deroghe: amatevi. E ancora: “Rimanete nel mio amore.” Questa è la strada per la felicità che oggi Gesù ci mostra, e la strada su cui ogni giorno ci guida.
Rimanere, stare, fermarsi: parole spesso lontane dalla nostra quotidianità di uomini e donne impegnati nel lavoro, nella famiglia, nelle diverse attività che occupano freneticamente i nostri giorni. Eppure questa è la strada che ci viene indicata, e scopriamo, fermandoci, quale sia la sua ricchezza.
L’amore, ci accorgiamo, è costitutivo, è all'origine della nostra e di ogni famiglia. Se non ci fossimo innamorati, se non ci fossimo amati, non esisteremmo come coppia. Siamo impastati d’amore al punto da non poter esistere senza, al punto da divenire immagine dell’Amore più grande che esista, quasi un laboratorio per imparare a conoscere l'amore che Gesù stesso ha vissuto.
Ma quando il nostro rapporto di coppia sente la fatica, quando scopre le difficoltà e le incomprensioni della relazione, quando sembra non ci sia più nulla da dire, né ci siano più strade da intraprendere per ricostruire il progetto che insieme avevamo cominciato, allora fermarsi diventa il contrario di correre a tristi conclusioni. Fermarsi nel Suo amore, rende possibile attendere, sostare, perdere tempo per aspettare l'altro, per coltivare la riconciliazione senza timore di sprecare amore.
Quando i nostri figli esplorano strade lontane dai nostri progetti e ci sembra impossibile comprenderli e tanto più condividere le loro scelte, allora fermarsi significa non dichiarare subito il nostro fallimento di educatori. Restare nel Suo amore, ci incoraggia a sederci a tavola con loro sperperando sempre e comunque il nostro, il Suo amore, a dispetto delle opinioni differenti, e lasciando che il nostro, il Suo amore, faccia scoprire loro la radice unica della felicità vera.
Quando come famiglia e come comunità cerchiamo strategie efficaci per rendere testimonianza a quel Cristo che è risorto per noi, e ci fa risorgere con Lui, allora fermarsi significa non precipitarci a testa bassa verso complessi progetti pastorali, o sfolgoranti slanci di eroico altruismo. Stare nel Suo amore, significa abbandonarci a Colui che ci ha chiamato amici, e capire che "non noi abbiamo scelto lui, ma lui ha scelto noi", e che solo nutriti di Lui, potremo dare quei frutti che sono destinati a rimanere.
E allora ritroveremo, riscopriremo la gioia, quella gioia che vediamo nelle fotografie del giorno delle nozze, o in quelle dei bambini, che in ogni casa ci guardano da pareti e ripiani. La gioia che è la parte di noi che ci piace ricordare, mostrare. La gioia che è conseguenza dell'amore: se amare è un imperativo, essere felici è il suo effetto, per la nostra famiglia, e per ogni cristiano.
Nulla di segreto, nulla di nascosto. Tutto ciò che il Padre ha rivelato, ora anche noi lo sappiamo. Ed è tutto qui: il segreto della vita, la chiave della felicità, è rimanere nell'amore di Gesù, come lui rimane in quello del Padre.
E rimanere e andare diventano solo due facce della medesima medaglia. Operare e vivere nella Speranza certa della Sua gioia, e restare, attendere nel silenzio del cuore che lascia spazio alla risposta piena e abbondante di Dio.
Solo così, solo traboccanti del suo amore, solo capaci di appartarci con Lui, potremo amarci gli uni gli altri come lui ha amato, e donare a chi vive con noi, o a chi occasionalmente incontriamo, il nostro amore pieno e totale. Solo quando ogni nostra relazione sarà relazione d'amore, e sapremo rimanere nei nostri amori, nei nostri giorni, nelle nostre quotidiane occupazioni, senza fretta e senza corsa, la sua gioia sarà in noi, e, ciò che più vale, sarà gioia piena.

06/05/12

6 maggio 2012 - V domenica di PASQUA - anno "B"

Dal Vangelo secondo Giovanni (15, 1-8)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».




Una vite ed i suoi tralci: un'unica pianta che corre lungo i filari della vita, raggiungendo distanze e luoghi solo apparentemente lontani dalla propria radice. Questa è l'immagine che oggi Gesù ci regala della nostra esistenza, della vita della nostra famiglia, del nostro essere cristiani.
E con un'immagine così apparentemente lontana dalla nostra routinaria quotidianità, ci racconta in realtà quello che ogni giorno viviamo. Lo sappiamo, lo sperimentiamo, sono i tralci a sentire l'energia della primavera, sui tralci sbocciano i germogli, sono i tralci a portare il peso e la gioia dei grappoli maturi. Siamo noi, piccoli tralci, a provare emozioni, a commuoverci e provare nostalgia. Siamo noi ad innamorarci, a ridere e a piangere per la felicità dei nostri figli.
Ma oggi Gesù ci dice, dice alle nostre case, al nostro matrimonio, alla nostra famiglia, che non esiste fecondità senza di Lui. E capiamo che la linfa che ci ha permesso di trarre ogni giorno il meglio uno dall'altro, che ci ha permesso di crescere insieme e di accoglierci come avevamo promesso nel giorno del nostro matrimonio, è sempre e solo Lui. Inaspettatamente quelle parole, “con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre”, assumono un significato diverso, sorprendente e liberante insieme. La nostra promessa, quasi incredibile, assume i connotati di una certezza, proprio perché Lui l’ha nutrita giorno dopo giorno. E così' possiamo pensare anche dei nostri figli: la nostra preoccupazione per trovare le migliori strategie educative, le scuole migliori, le attività sportive più strutturanti, si libera di ogni peso pensando che i frutti dei nostri rami, in realtà, sono frutti Suoi.
A volte è forte la tentazione di credere che quella linfa, che scorre lentamente ma senza mai fermarsi, non nasca in realtà così lontano. Immaginiamo che la forza dell'amore che dà vita alle nostre giornate, abbia origine solo dentro noi stessi. Ci convinciamo di aver costruito il nostro amore partendo dal nulla, e di averlo fatto sopravvivere alle difficoltà contando sulle nostre forze. Non è strano gioire nell'intimo quando vediamo i frutti dell'amore che ci abita, quando riusciamo a rendere migliore, anche solo un poco, la vita di qualcuno. Il rischio di credere che la vite a cui siamo connessi non abbia un grande ruolo, e di convincerci che potremmo fare da soli, con le nostre doti e capacità, c’è, ed è forte.
Ma per fortuna Gesù ci fornisce l'antidoto. Ci chiede di rimanere nel suo amore, ci promette la gioia di continuare a dare frutto, ci promette che i suoi frutti saremo noi a portarli. A questo allora siamo chiamati, a lasciar scorrere, nella nostra coppia, nel rapporto con i nostri figli, nelle nostre comunità, la stessa linfa di cui siamo nutriti: il suo Amore.
Lui è la radice della gioia e noi i tralci a cui è chiesto di portare la sua gioia. Così cogliendo da Lui il nostro nutrimento, potremo portare sereni i nostri grappoli. Potremo offrire ai nostri figli il grappolo del matrimonio, il grappolo di una vocazione vissuta. Potremo portare ai nostri amici il grappolo dell'accoglienza, dell'ascolto, il grappolo della serenità nelle difficoltà. E ogni volta che penseremo che forse sarebbe meglio fare da soli, ogni volta che saremo tentati di chiuderci nella gioia della nostra casa, appagante e rassicurante, ci accorgeremo che stiamo pensando, in realtà, di rinunciare all'unica vera origine della nostra gioia.
E tutto questo non è un delegare la vita, un lasciarsi vivere passivamente, ma sapere di essere parte integrante di una vite più grande di noi, che anche dalla ricchezza dei nostri grappoli trae la sua bellezza. E anche quando arriverà l'inverno e dal nostro tralcio cadranno le foglie, sapremo che la ragione della nostra vita è rimanere uniti a quella vite, che continuerà a nutrirci con la linfa dell'amore, nell'attesa di una nuova primavera. 

27/04/12

29 aprile 2012 - IV domenica di PASQUA - anno "B" -

Dal Vangelo secondo Giovanni (10, 11-18)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».




Un pastore ed il suo gregge di pecore, figure un po' desuete per i nostri giorni. Eppure ci capita ancora di poter osservare alla periferia delle nostre città alcuni di questi uomini, disposti a dormire in alloggi di fortuna, mangiare pasti frugali, affrontare il sole e la pioggia, e persino lo scherno della gente comune, pur di non abbandonare il proprio gregge, e guidarlo nei pascoli migliori.
E questa immagine di pastore, oggi Gesù ce la propone per raccontarci la sua amicizia fedele con noi. E un po' ci sentiamo turbati nel pensare che il nostro Dio non tema di paragonarsi a uomini tanto umili, lasciati ai margini, isolati dalla "migliore società". Ci stupisce che usi proprio questa similitudine, oggi ancora più forte proprio perché desueta, per descriverci la sua dedizione costante, il suo disprezzo per ogni pericolo, la sua vicinanza ostinata, tanto che nemmeno l'arrivo di un lupo lo potrà allontanare da noi.
Se ci fermiamo a pensare al mondo in cui viviamo, ci vengono alla mente più facilmente diverse categorie di mercenari che vogliono far sentire forte la propria voce, e cercano di guidarci, per interesse, su pascoli lontani. A volte, in tutto questo frastuono, ci capita persino di pensare che il pastore buono, Gesù, si sia dimenticato di noi, o abbia smesso di dirci qualcosa. E il rischio ancora più grande è di condividere questa convinzione con chi ci circonda, e insieme, come un gregge, seguire la voce sbagliata.
Ma Gesù è davvero il pastore buono, e la sua voce non smette di farsi sentire. È una voce che accompagna, che protegge. La voce di chi dà la propria vita senza chiedere nulla in cambio. È la voce di chi guida per educare, per trarre da ciascuno il meglio di sé. Ed educare in fondo è proprio questo: conoscere, farsi conoscere, porsi accanto, proteggere fino a dare la vita.
E noi che nella nostra vita ci troviamo per tratti più o meno lunghi ad essere a nostra volta educatori, ci accorgiamo che verrà un giorno in cui smetteremo di essere i pastori dei nostri figli, ma ci scopriremo, insieme, pecore dello stesso gregge. E sappiamo che anche per questo abbiamo bisogno di essere guidati, di avere qualcuno che ci tiene per mano, che ci nutre, che ci fa sentire sicuri.
Così oggi, pensando alla nostra vita, alla nostra famiglia, alle nostre relazioni vogliamo concentrare la nostra attenzione anche su quel gregge che conosce il Pastore e la sua voce, e la distingue tra mille, e la segue. E pensiamo che alle pecore non è chiesto di scegliersi il pascolo, ma di andare dove il pastore le conduce. Così come a noi non è chiesto su quale terra, e per quali vie conoscere e far conoscere l’amore, ma di lasciarci accompagnare, fiduciosi della Sua voce, amando ogni filo d’erba che ci è dato di brucare, ogni uomo o donna che nei prati del lavoro, della casa, dei più diversi luoghi quotidiani, ci è dato di incontrare.
E ancora alle pecore non è chiesto di osservare la grandezza del gregge, né il colore della pecora che bruca accanto, né se il gregge si è arricchito di pecore di altri recinti, che prima non seguivano il pastore. Ma è chiesto, alle pecore, di convivere e dividere il recinto, e a noi, crediamo, di sentirci parte di una sola famiglia, quella che riconosce un solo Padre.
Questo ci pare l’invito di oggi: fidarci della Voce, senza farci condizionare dalle voci; affidarci al Pastore, lasciandoci educare da Lui all'amore, senza domandarci se l'amore che spendiamo sia speso bene o rischi di cadere nel vuoto; lasciarci condurre, per imparare ad amare i luoghi che abitiamo con la consapevolezza che un Dio-pastore è al nostro fianco, e "il suo amore è per sempre". 

20/04/12

22 aprile 2102 - III domenica di PASQUA - anno "B"

Dal Vangelo secondo Luca (24, 35-48)

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».




Gesù è risorto, e appare ai suoi nel cenacolo. Ancora una volta in mezzo a noi. Ancora una volta a sorridere della nostra eterna incredulità e paura. E noi, ancora una volta, ostinati nell'interrogare la fede altrui cercando risposte che solo aprendo il nostro cuore alla fiducia in Lui possiamo trovare. Così oggi ci fermiamo al cospetto di un Dio che, sconfitta la morte, torna dai suoi amici e mangia con loro pesce arrostito. Un Dio che non ostenta il suo trionfo, che non giudica chi l'ha tradito o chi non ha ancora il coraggio di credere, ma che si siede a tavola.
E ci vediamo come in uno specchio, "sconvolti e pieni di paura" mentre, incontrando Gesù, "crediamo di vedere un fantasma", uno spirito, una “lontananza” anziché una presenza. Crediamo di avere a che fare con Qualcuno ormai destinato ad abitare il cielo, e quindi distante dal poter capire ciò che noi stiamo concretamente vivendo, distante dal poter accogliere i nostri problemi, le nostre fatiche, le nostre misere vicende quotidiane.
Ma Gesù non si ferma, non ci abbandona. Non si scoraggia pensando che non ci è bastata l'incarnazione, non ci è bastato il suo lavarci i piedi, non ci è bastato il suo abitare le sofferenze più umilianti, non ci è bastato vedere un sepolcro vuoto, per capire che la fede, il cammino d'amore che ci è chiesto, è un cammino terribilmente umano e concreto. No, non si ferma, non ci abbandona e capisce. E così torna in mezzo a noi, riportandoci a quella vita che è "dai tetti in giù", e ci chiede da mangiare.
La tavola, lo sappiamo bene, è il posto dove ci si ritrova tutti, dove si condividono il cibo e la giornata trascorsa, dove ci si scambiano opinioni e progetti. A tavola ci si lascia andare, talvolta si scaricano sugli altri le tensioni della giornata, si dà il meglio ed il peggio di sé. E la tavola è anche il posto del “passarsi l'acqua”, del servirsi a vicenda. E tutto questo Gesù lo vuole condividere con noi: è uno di noi, ha scelto la vita e vinto la morte per questo. E così, come a tavola aveva iniziato i suoi miracoli a Cana, così ora sceglie di affidare ad una tavola il compito della testimonianza.
E noi ci guardiamo l'un l'altro increduli, impauriti come i primi apostoli, stupiti che un luogo così quotidiano, così intimo, sia il luogo d'elezione per l'annuncio del Vangelo. Eppure questo è il nostro Dio: un Dio con cui possiamo permetterci di condividere "una porzione di pesce arrostito", un Dio con cui possiamo permetterci di sedere a tavola, per gustarne la presenza in “carne e ossa”. E quel gomitolo di relazioni, di sentimenti, di quotidiana umanità che vive nelle nostre giornate, è davvero ciò di cui l'annuncio del Vangelo non può fare a meno, è davvero il terreno su cui il seme che è morto può dare molto frutto.
Allora, dopo la gioia della Pasqua, oggi cominciamo la strada verso la concretezza semplice ed usuale della Risurrezione. Cominciamo a cercare la Risurrezione in una sera di famiglia in cui spegniamo le luci dei riflettori, dei “dover essere” e dei “sembrare”, per parlare dei semplici avvenimenti della giornata ed insegnarci reciprocamente ad amarli. Scopriamo la Risurrezione di una luce accesa, perché un amico possa sedersi nel nostro salotto, e condividere i suoi problemi o le sue gioie. Scopriamo la Risurrezione di una telefonata inattesa, per raccontare la sincerità di una relazione coltivata anche nei tempi e negli spazi lontani. Scopriamo la Risurrezione di un banale “pesce arrostito” pur di stare a tavola con chi non conosce il calore rassicurante di una famiglia.
E attraverso tutto questo, Gesù, silenziosamente al nostro fianco, in carne e ossa, fa “risplendere su di noi la luce del suo volto”, e ci insegna ad essere, giorno dopo giorno, piccoli testimoni di quella gioia che, se compresa, fa scoppiare il cuore, e lo trasforma da cuore di pietra in cuore di carne. 

13/04/12

15 aprile 2012 - II domenica di Pasqua - anno "B"

Dal Vangelo secondo Giovanni (20, 19-31)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. 




E' tornato. Ha vinto le porte chiuse, ha vinto le nostre paure, ha vinto persino la nostra incertezza ed incredulità. E' tornato per donarci il perdono e la pace. Questa è la buona notizia di oggi: siamo amati di un amore forte, impossibile da sconfiggere, capace oltre ogni resistenza.
Gesù entra nelle nostre stanze chiuse, e come a voler togliere l'aria stantia, soffia su di noi lo Spirito che cancella il peccato. Cancella quel peccato che non è una cosa visibile, come una ruga sul viso, o come le ferite di Gesù. E non è neanche "aver fatto qualcosa di male" o una macchia indelebile sull'anima. Cancella il peccato di mancare all'appuntamento con l'Amore, di essersi allontanati come aveva fatto quella domenica Tommaso.
E così insieme ai dodici scopriamo che non abbiamo più un Dio da temere, ma un Dio che desidera stare in mezzo a noi, al centro delle stanze della nostra vita, e che a noi, amici suoi, è concesso di ricambiare il suo amore con il nostro. Questa è la pace. Non l'assenza di dolore, non l'assenza di timore, non l'assenza del desiderio di fuggire davanti a tristezze o gioie più grandi di noi, ma l'amore scambiato tra Dio e la nostra fragile umanità, scambiato con quel Dio che ci viene a cercare, anche quando lo chiudiamo fuori.
Chi è fuori dalla stanza non può capire, visto da fuori sembra assurdo, incredibile. E certo anche noi ci scopriamo a pensare incredibile una simile vicinanza con Lui, ci scopriamo a voler toccare con mano, prima di credere di non essere più esecutori supini di una legge, ma uomini chiamati a vestire l'abitudine dell'amore totale. Ci scopriamo ad essere un po' come Tommaso, quando la paura di un'altra delusione ci rende schiavi del passato, quando credere ci sembra una mancanza di buon senso, quando avere fede ci sembra una scommessa troppo grande.
Ma quasi a rispondere alle nostre richieste di assicurazione, al nostro desiderio di mettere le mani nei buchi dei chiodi e nella ferita del costato, il Signore ci dona altri uomini con cui condividere il suo amore, così che amando l'uomo troviamo la radice dell'Amore, e amando Lui impariamo ad amare l'uomo.
Ecco allora che anche le nostre piccole occupazioni sdrucciole, quelle in cui non ci accorgiamo nemmeno di avere l'amore come prima ed ultima radice, diventano la nostra palestra e la nostra garanzia. Ecco che scoprendo la delicatezza di un marito o di una moglie, o spiando il sorriso innamorato di un figlio, e contemplando la generosità di un bambino o la sincerità di una amicizia, sentiamo crescere in noi quella pace che è gioia piena del cuore, e scopriamo che quella pace può arrivare solo da Lui e può condurci solo a Lui, attraverso innumerevoli e sconosciute strade. Così ogni gesto che siamo abituati a catalogare tra i doveri scontati, ogni occupazione che formalmente classifichiamo tra i gesti dovuti, non sono che la via vera, sincera e non formale, per camminare ciascuno e tutti verso la pace del cuore.
Pace a noi, allora, che scopriamo l'amore, o che fatichiamo a trovarlo, o che ci sforziamo ogni giorni per tenerlo vivo. Pace a noi, che scopriamo la testimonianza che vive della vita semplice, e scorgiamo l'amore grande di Dio, proprio nell'amore piccolo, e faticoso della nostra casa. Pace a noi, che grazie a questa pace che viene dal Suo perdono, e dalla Sua vicinanza, troviamo la forza per riaprire le nostre porte, le porte dei nostri bui cenacoli, per farli diventare nuova strada verso la Luce.

07/04/12

8 aprile 2012 - PASQUA DI RISURREZIONE

Dal Vangelo secondo Giovanni (20, 1-9)

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.




Oggi è il giorno della gioia. Cristo è risorto. La morte è vinta. La luce è tornata. La festa d’ora in poi è festa per sempre, festa per ogni giorno, perché "per sempre è il Suo amore".
E corriamo anche noi per le strade con il sorriso sui volti e le braccia alzate, e proseguiamo la strada di chi, nel tempo, ha ripetuto questo annuncio: Cristo è tornato tra i vivi. E come allora, anche noi abbiamo giorni in cui l'annuncio è pieno di stupore, misto di paura, come fu l'annuncio di Maria di Magdala che corse dai dodici dopo aver visto la pietra rotolata via dal sepolcro. Anche per noi ci sono giorni in cui le parole sono più timide della certezza della fede, e non sappiamo dire altro che "hanno portato via il Signore, e non sappiamo dove sia". E abbiamo giorni in cui la certezza di una presenza accanto ci spinge a correre, a muoverci senza esitazione e timore, come il discepolo amato. E giorni in cui la fatica, la stanchezza, l'aver conosciuto il peso dell'amore ci fa camminare lenti, senza troppo slancio.
Ma alla fine del cammino, giunti sulla soglia del sepolcro, ciascuno di noi, con i suoi tempi ed i suoi modi, proclama la vittoria dell'amore. Perché anche noi l'abbiamo visto risorgere l'amore, almeno una volta. L'abbiamo visto risorgere in quella coppia che ha superato una crisi, in quei genitori che hanno attraversato la perdita di un figlio imparando ad amare come figli tutti coloro che gli è dato di amare, in quelle cento, mille persone che decidono quotidianamente di donare tutta la loro vita al servizio di chi non ha nulla da dare in cambio. E vedendo l'amore risorgere dalle dichiarazioni di morte che giornali e opinione pubblica spesso ostentano, abbiamo, giorno dopo giorno, imparato a credere.
E così attraversando il tempo e lo spazio, possiamo gridare oggi come allora in Palestina, la fine del silenzio di Dio, la fine della sua lontananza, per dichiararne apertamente la Paternità e l'Amore.
Ma questa Risurrezione non è soltanto l'annuncio di un evento storico, sconvolgente, ma passato, come non è un evento storico, confinato nel tempo, il giorno delle nozze, né lo è la data di nascita di un figlio.
La Risurrezione è l'inizio di una storia, un evento che cambia la storia, la nostra prima ancora che quella universale. Oggi la felicità trova un motivo che la alimenta, un avvenimento di fronte al quale ogni tristezza, ogni paura si dissolvono. E ogni gioia, anche la più piccola si riempie di un significato grande; anche la felicità più piccola si specchia nell'eternità, si scopre ad avere origine nell'amore di un Dio che ci vuole felici e per noi ha osato l'impensabile.
E questo è l'evento, la notizia, l'imprescindibile novità del nostro essere seguaci Suoi: se Cristo è risorto per noi, anche noi "siamo risorti con Cristo". Oggi è Risurrezione anche da quella quotidianità che ci fa essere indifferenti, da quella fatica di vivere che ci rende insensibili.
Non c’è più timore allora nel perdere la memoria di un’ingiustizia subita, vivendo nella carne e nel cuore la misericordia prima ancora del perdono, perché ogni ingiustizia è già stata vinta e ogni rancore già superato.
Non c’è più timore nell’affrontare la fatica di educare un figlio alla condivisione e al dono gratuito di sé, sapendo che sarà deriso e considerato inadatto al tempo che abita, perché l’Amore ha già vinto la sua battaglia per noi.
Non c’è più timore nel perdere forze ed energie per impedire che le piccole gioie delle nostre giornate vengono soffocate dalla disattenzione, dalla fretta, dalle preoccupazioni, perché oggi capiamo quanto abbiano piena cittadinanza, quanto partecipino dell'amore di Dio, quanto siano coinvolte nella sua Risurrezione.
Così oggi vogliamo perderci nella lode e dedicare un pensiero a tutti quei momenti di piccola gioia domestica, quei momenti così quotidiani e consueti da sembrare banali, da non meritare neppure di essere ricordati. Uno sguardo, una carezza, un sorriso. Un favore, una gentilezza, un complimento inatteso. Il sapore del vivere insieme, del prenderci cura gli uni degli altri, dell'abitare la stessa casa o lo stesso mondo. Vogliamo perderci nella lode e portare nei giorni che verranno una certezza: quanto “è stato fatto dal Signore è una meraviglia ai nostri occhi.” 

26/03/12

25 marzo 2012 - V domenica di Quaresima - anno "B"

Dal Vangelo secondo Giovanni (12, 20-33)

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.




Perdere la propria vita, spenderla senza speranza di un guadagno, non trattenerla gelosamente come un tesoro privato: non è l'invito ad una quotidianità insipiente quello che oggi Gesù ci rivolge, ma la chiara indicazione ad organizzare i nostri giorni seguendo l'esempio di chi, accettando di essere "innalzato da terra", attirò tutti a sé. Con questo suggerimento oggi si conclude il nostro itinerario quaresimale, in cui abbiamo provato a rivisitare la nostra vita e a lasciarci interrogare da Lui per trovare strade rinnovate su cui dirigere i nostri passi.
E la similitudine che oggi Gesù ci indica è semplice e chiara: siamo, possiamo essere, come un chicco di grano, destinato a cadere in terra e a lasciarsi morire, per divenire ciò che è veramente, cioè spiga, grano, nutrimento.
Lo sappiamo, la morte è un pensiero difficile, ci fa paura. Il più delle volte, uno strano senso di imbarazzo e pudore ci porta persino ad evitare l’argomento. Ci fa paura la morte fisica, ma, forse ancora di più, ci fa paura l'idea di lasciarci andare completamente alla volontà di chi ci ha amato per primo, correndo tutti i rischi della fragilità e della debolezza dell'amore. Ci fa paura morire a noi stessi per seguire Lui, ma ci fa paura anche morire a noi stessi per amore di chi ci vive accanto, di chi un giorno abbiamo deciso di amare per sempre, di chi ci è stato affidato senza che noi lo conoscessimo, né potessimo governare in qualche modo la sua libertà. Ci fanno paura le tante, piccole o grandi morti che affrontiamo ogni giorno e che attraversano la nostra vita. Moriamo un po' ogni volta che si spezza un legame, quando qualcuno se ne va, quando ci accorgiamo che il nostro bambino non è più un bambino, ma adolescente, o addirittura uomo, ed è ora che ascolti la voce venuta per lui e non per noi. Moriamo un po' ogni volta che la vita ci costringe a cambiare in profondità, ad abbandonare un'immagine che avevamo di noi stessi, a rinunciare ad un progetto o ad un sogno. Per morire ci vuole coraggio, perché nella morte c'è sempre una parte di sofferenza, di dolore. Staccarci dalla vita, o da una persona, o dall'immagine che abbiamo di qualcuno o di noi, fa male.
Ma oggi, con Lui, che pure ha conosciuto il "turbamento dell'anima" nel momento in cui si avvicinava l’ora per cui era stato mandato, con Lui siamo chiamati ad uccidere le nostre paure e a scoprire che esse ci rendono sordi e ciechi davanti all'Amore. Siamo chiamati a lasciarci plasmare ancora una volta, per sentire la sua voce quando la delusione e la tristezza vorrebbero prendere il sopravvento, e farci credere che dalla morte sia meglio fuggire, convinti che possa ancora avere l’ultima parola.
Ce lo ha detto con chiarezza, e lo ha vissuto per noi nella sua carne: il chicco di grano che muore, dà frutto; ogni morte a se stessi, apre ad una vita più grande.
Allora oggi vogliamo imparare ad andare incontro a queste piccole grandi morti con umiltà, a seguire Lui con fiducia sapendo che “dove è Lui, là sarà anche il suo servitore”. Vogliamo rinunciare all'idea di essere indispensabili, e non costruire relazioni basate sul bisogno che gli altri hanno di noi. Vogliamo imparare a riconoscerci chicco e non pretendere di essere spiga. Perché il chicco non racconta il campo di grano, come una nota non fa una sinfonia, né una goccia il mare. Ma ogni chicco, ogni nota, ogni goccia, realizzando la propria autenticità diventeranno campo, e musica, e mare.
Oggi vogliamo seguirlo e vivere il “paradosso” di una morte che dà vita, e di un amore più forte di ogni silenzio o di ogni fine. Vogliamo sentirci davvero attirati a Lui, e seguirlo nello "sperpero" di tutto ciò che siamo, di tutto l’amore che sappiamo, lasciando che “scriva la sua legge sul nostro cuore”.

16/03/12

18 marzo 2012 - IV domenica di Quaresima - anno "B"

Dal Vangelo secondo Giovanni (3, 14-21)

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».




Luce e tenebre, notte e giorno sono messi a confronto in questo dialogo tra Gesù e Nicodemo. E si contrappongono oggi anche nel nostro viaggio quaresimale a colloquio con il nostro essere amici e seguaci dello stesso Cristo che Nicodemo ha interrogato nella notte.
E allora ci sentiamo spinti a guardare negli occhi tutte le nostre notti, quelle che abbiamo vissuto di persona e quelle che abbiamo sfiorato, incontrando la notte di chi ci camminava al fianco. Ci sono le notti che ci spingono a dubitare, quelle che ci tolgono il fiato e le forze, quelle che ci bloccano di paura. Ci sono le notti in cui ci incamminiamo per nostra volontà, credendo di poter fare a meno dell'amore, e quelle che ci sentiamo scaraventate addosso e che chiamiamo, non senza rabbia e disprezzo, il "destino".
Ma che senso hanno tutte queste notti? Abbiamo solo un modo per scoprirlo: non rimanere fermi nel buio, non preferire le tenebre alla luce, ma attraversare la notte come Nicodemo l'ha attraversata per trovare una risposta.
E vogliamo imparare, oggi e sempre, ad attraversare il silenzio delle incomprensioni e dei pregiudizi, per cercare un dialogo nuovo anche dove sembra che un'amicizia non abbia più fondamento. Vogliamo attraversare il freddo delle ferite inflitte con noncuranza quando la quotidianità dell'amore appare banale, per cercare il senso più vero del dono silenzioso di sé, nella riscoperta di una vocazione che si fa cammino di ogni giorno. Vogliamo attraversare il buio della sofferenza e della morte, per scoprire persino nel dolore la presenza constante di un Amore, che non ci abbandona, ma si incammina al nostro fianco, piangendo il nostro pianto, e riportandoci per mano a ritrovare il senso della vita.
Oggi è un percorso difficile, ma diritto, quello che ci chiede Gesù. Un percorso in cui non ci è permesso trovare scorciatoie o nascondigli, non è permesso fare finte. Credere in Lui significa muoversi alla luce, senza paura delle tenebre. E quando verrà il momento, perché certo ci accadrà, in cui ogni cosa sembrerà consigliarci di cambiare strada, solo fissando in Lui lo sguardo, persino oltre il ragionevole, ci sarà possibile rimanere nella nostra Verità. Come accade a quelle vite che sembrano perdute, a quelle riconciliazioni che sembrano impossibili: solo chi ha smesso di crederci è condannato, ha emesso da sé la propria condanna.
E allora se nelle nostre o nelle altrui notti ci sentiremo condannati da Dio, giudicati da Lui, in realtà sarà solo perché ci stiamo giudicando da noi stessi, o stiamo confondendo il giudizio del mondo con il giudizio di Dio. A noi Gesù chiede di procedere per la nostra strada, di fare le cose in cui crediamo alla luce del sole. Continuiamo a credere nel Vangelo, continuiamo a cercare di metterlo in pratica, anche se questo, a noi stessi o al mondo, può procurare fatica o fastidio.
Solo così potremo scoprire che Gesù per primo, con le sue braccia inchiodate alla croce, ha voluto abbracciare tutte le nostre notti, tutte le nostre fatiche, e tutte le condanne che gli uomini non faticano ad emettere. Con quelle braccia distese tre il cielo e la terra, ha accolto la notte per riportare a noi la luce. E solo così potremo ritrovare dentro di noi la gioia profonda di chi è stato salvato per un amore totale, di cui non siamo noi gli artefici, e che nemmeno con le nostre azioni ci potremmo guadagnare, ma che ci è donato gratuitamente per guidarci con la sua Luce nei giorni limpidi e in quelli oscuri della nostra vita.