30/09/11

2 ottobre 2011 - XXVII domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo  (21, 33-43)


In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:“La pietra che i costruttori hanno scartatoè diventata la pietra d’angolo;questo è stato fatto dal Signoreed è una meraviglia ai nostri occhi”?Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».



Da qualche settimana ormai, siamo accompagnati dalla liturgia a calcare i nostri passi all'interno della vigna. La vigna da lavorare senza preoccupazione per la paga, la vigna in cui gioire per i frutti che vi gustiamo, la vigna in cui incamminarsi con cuore sincero, senza recriminare, senza  allontanarsi dalla volontà del Padre che ci ha mandato. Una vigna che sempre più ci appare come la terra affidata alle nostre mani, al nostro desiderio di custodirla e di prenderci cura di lei.

E leggendo le parole di Isaia, nella prima lettura, scopriamo che questa vigna non è una coltivazione come tante, ma, addirittura, le è dedicato un cantico d'amore, come fosse una fidanzata o una  moglie. È un Dio innamorato, il nostro, che dissoda e coltiva e pianta viti pregiate.
Questa vigna, in realtà, somiglia molto al giardino della prima umanità, donato da Dio all'uomo e di cui l'uomo è padrone perché custode ed interprete. L'uomo, cioè tutti e ciascuno di noi. E così ci troviamo, nei nostri giorni comuni, ad essere i contadini del giardino, della vigna, sapendo che essa non è opera delle nostre mani, poiché “il padrone la circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre” prima di affidarcela. Ma ora ci scopriamo anche necessari perché quella vigna fiorisca e continui a dare frutti. Siamo contadini incapaci di creare con le nostre mani la bellezza di una vigna all'inizio dell'autunno, colma di grappoli e viva di colori, ma insieme siamo custodi di quella bellezza e privilegiati interpreti del messaggio che il Signore, con quella bellezza, ci sta mandando.
Allora oggi, sembra che le parole di Gesù ci accompagnino a scoprire la relazione che Dio desidera avere con noi, una relazione di amore premuroso e paziente, capace di mettere ogni cosa nelle nostre mani, una relazione desiderosa di far fruttificare la sua vigna per noi e insieme a noi. Siamo noi quei contadini a cui dà in affitto la sua vigna, lasciandola alle nostre cure in piena fiducia e libertà.
Ma qui si insinua l'eterna tentazione dell'uomo: prendere il posto del padrone. La stessa tentazione che ha indotto Adamo ed Eva a mangiare del frutto dell'albero, la stessa che ha reso, e ancora rende, disprezzati i profeti ed ha fatto sì che “uno lo bastonassero, un altro lo uccidessero, un altro lo lapidassero”, ed è la stessa tentazione che ha portato a morte il Figlio amato.
Eppure l'amore del padrone è più grande e più forte, “la pietra che i costruttori hanno scartato la fa divenire la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”. L'uomo, ciascuno di noi, può ribellarsi al padrone, può urlare la propria libertà credendo che essa sia indipendente dall'amore, può dibattersi negando a se stesso che il mondo e la vita gli sono stati donati gratuitamente, “nel principio” ed ogni giorno che il sole sorge per lui. Ma, d'ora in poi, ora che Gesù, sebbene “scartato”, è divenuto pietra angolare dell'amore di Dio per noi, ci sarà sempre uno sguardo che ci cerca, che ci attende, che ci chiama, che non chiede altro che di specchiarsi nei nostri giorni comuni, così banali e insieme così speciali giorni di uomini.
Questo è il desiderio di Dio, che come l'acqua riflette il colore del cielo, anche noi riflettiamo il colore del suo amore, anche noi diventiamo cooperatori delle sue mani, voce della sua grandezza, custodi della vita che ci circonda, e, in questo scambio d'amore tra Lui e noi, portiamo frutti nella sua e nostra vigna.

23/09/11

25 settembre 2011 - XXVI domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (21, 28-32)

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».



Un padre, due figli e una vigna. E forse la vigna è la stessa dove il padrone convocava gli operai in ore diverse della giornata, dando a tutti la stessa paga. Ora tocca ai figli, che sono liberi di scegliere se andare a lavorare o no. Non son pagati, non aspettano un denaro a fine giornata. Chissà cosa li spinge a lavorarci. Forse l’amore o il rispetto per il padre, forse l’appartenere alla stessa famiglia, può darsi che godranno dei frutti, del vino che ne verrà. Sono figli, e per questo la vigna è anche un po’ loro. Uno dei due non vuole andarci, ma poi si pente e ci va. L’altro risponde in uno slancio di amore e fedeltà, ma poi non segue le proprie parole.
E la domanda per ciascuno di noi è: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”
Compiere la Sua volontà. Certamente si tratta di fare che le parole e le azioni si corrispondano, ma ancor prima della coerenza oggi ci è chiesta la conversione.
E troppo spesso ci troviamo impegnati a cercare una perfezione formale, fatta di rispetto rigido e vuoto della legge invece che incamminarci nell’imitazione di quella misericordia, di quella bontà estrema e quasi incomprensibile che già domenica scorsa ci veniva proposta. Eppure è questo il percorso che ci viene indicato: svuotare se stessi per obbedire ciecamente all’amore. Non promesse di labbra, ma conversione: pentirsi per credergli, cogliersi imperfetti per scoprire il suo amore, sentirsi perdonati per poter incontrare il cuore di chi ha bisogno di perdono.
E invece quanta fatica: fatica nel vedere nell’altro il volto di Cristo che ci chiama. Fatica nello scegliere ogni mattina di rispondere ad una chiamata che ci vuole servi, certo, ma servi dell’Uomo per incontrare noi stessi. Fatica nell’accettare che la meta sia alta, ma non irraggiungibile, e quindi esigibile da quel Dio paziente ed innamorato che continua a camminarci al fianco per prenderci per mano e portarci sulla Sua strada.
E’ più facile dire sì ad uno slancio emozionante che trascina e coinvolge, che non recarsi ogni giorno nella vigna del Padre e sentire il caldo snervante del costruire una relazione vera, o sopportare la pioggia di parole che trasformano il dialogo in somma di solitudini, o prendere tra le braccia le zappe per arare il terreno dei proprio interessi spiccioli, dei propri egoismi, dei propri orgogli.
E’ più facile dire sì nell’entusiasmo e poi dare all’amore un nome che non dura, che accogliere la fatica di costruire, con la pazienza del contadino che sta nella vigna della propria vita e semina amore, senza sapere cosa, e se, e quando raccoglierà.
E allora, ci dice oggi Gesù, è più vero quel figlio che si lascia pur trascinare dallo scoraggiamento, che ammette di voler tenere qualcosa per sé e che nega la propria opera al padre, magari schiacciato dalla fatica, dallo scoramento, dall’umiliazione. E’ più vero non perché sia giusto fare a volte un gesto di risparmio del cuore, quasi a prendere fiato da una corsa non nostra. E’ più vero perché si pente e ricomincia il cammino, perché ha imparato a volgere il cuore verso l’amore vero, quello che innamora sì, ma che poi riempie tutto di sé e chiede l’obbedienza solo e soltanto alla felicità.
Allora oggi vogliamo anche noi chiedere al Signore di “farci conoscere le sue vie, di insegnarci i suoi sentieri, di guidarci nella tua fedeltà e istruirci”. Glielo chiediamo perché il nostro cuore impari a pentirsi, a piangere delle proprie lontananze e non dei propri insuccessi personali, impari a sentire la mancanza di Lui. Glielo chiediamo perchè il nostro cuore impari a credergli, a dargli fiducia, con costanza, con fedeltà quotidiana, come una anziana coppia che ogni mattina sceglie di nuovo il proprio matrimonio non nella certezza della perfezione, ma nella speranza certa di camminare verso la felicità.

17/09/11

18 settembre 2011 - XXV domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (20, 1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».






“Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”
Qual è lo scopo della nostra vita? Cosa vogliamo davvero dai nostri giorni? É questa la domanda che oggi il Signore rivolge a noi e a ciascuno. Una domanda di senso, di scopo, di significato.
C'è una vigna, un giardino, che al principio del tempo ci è stato affidato. Un giardino creato per essere donato all'uomo, perché ne imparasse la cura. E questo giardino è abitato da uomini, donati gli uni agli altri perché imparassero l'amore.
Allora come è possibile che qualcuno stia tutto il giorno senza fare niente? Come è possibile vivere senza amare ciò e chi ci circonda? Come è possibile lasciare che un'amicizia muoia per inedia, che un amore si consumi nell'abitudine, che una vita scorra senza scopo?
È una domanda semplice, dalla risposta quasi ovvia e banale. Ma è una domanda che interpella profondamente le nostre giornate, così piene, così di corsa, così volte ad inseguire una meta che forse non conosciamo più, o non abbiamo mai conosciuto. 
Certamente i nostri giorni, le ore di ciascuno di noi non sono inerti, anzi. Abbiamo mille occasioni per recriminare sull'eccesso di attività che la società ed i ritmi di vita ci impongono. Ma quante di queste attività sono uno “stare in piazza, disoccupati” e quante invece sono lavoro che dà frutti veri nella vigna? È nel guardare in viso questa domanda che si gioca la nostra vita.
Già, perché se cominciamo a pensare che lo scopo delle nostre giornate è lavorare nella Sua vigna, se capiamo che ciò che facciamo non è altro che ricevere ogni giorno la nostra vita in dono per poterla adoperare affinché sia, a sua volta, donata ad altri, immediatamente ogni cosa cambia prospettiva.
Forse il lavoro non porterà più tutta quella fatica o quella noia con sé, ma diverrà memoria di quella promessa di affidamento del creato che un giorno Dio fece all'uomo. Forse le relazioni non saranno più così difficili, così protette dalle regole ufficiali della privacy, ma potranno diventare accoglienza, confronto, unità di intenti e di cammini. Forse persino l'amore smetterà di farci paura, e non ci chiederemo più se un legame “eterno” sia più grande di noi, perché ci scopriremo chiamati a conoscerci nell'abbandonarci all'altro, ad esistere in ragione dell'Amore, ad essere abitati dal nostro stesso legame ancor più di quanto ci sforziamo per costruirlo.
E allora davvero “gli ultimi saranno i primi”, perché a loro sarà più facile comprendere la grandezza dell'amore, perché gli ultimi non avranno paura della gratitudine, e non tenteranno di difendersi da chi li ama. Così la logica del mondo tornerà alle sue origini e scopriremo che “i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le nostre vie non sono le sue vie.” Ma comprenderemo anche che i suoi pensieri sono sogni di realizzazione, di gioia, di felicità per ciascuno di noi.
Solo allora scomparirà l'“invidia perché è buono”. Solo allora perché l'amore non fa torto a nessuno, e non si misura se non nella sua bellezza. L'amore dona tutto a tutti senza differenze di merito, perché vive del suo donarsi e non di quanto riceve in cambio. L'amore è per sua natura misericordia, cuore rivolto ai miseri, a tutti coloro che hanno sete, fame, desiderio di Lui.
Allora e solo allora impareremo davvero cosa significhi scoprire e gustare la “tenerezza” del Signore.

09/09/11

11 settembre 2011 - XXIV domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (18, 21-35)

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».




“...se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.

Perdonare perché perdonati, amare perché amati. Questo è il grande segreto della nostra vita, il segreto che rende ogni peso leggero, ogni difficoltà superabile, ogni incomprensione risolvibile. Il segreto sta in quello che abbiamo ricevuto e che ogni giorno riceviamo: l'Amore, quello vero.
La logica di Dio, ci spiega oggi Gesù come sta facendo da alcune settimane, non è la nostra. La vita nel regno di Dio che qui ed ora, in questa nostra storia, siamo chiamati a costruire, non risponde ai meccanismi di sfiducia, di rivalsa, di arrivismo che il mondo ci propone. Eppure questa apparente lontananza dal mondo degli uomini, non è affatto lontananza dall'Uomo. Non è preoccupazione di Dio che rispettiamo regole o che ottemperiamo ai dettami di una ideologia, è sua premura e cura e desiderio, semplicemente, che siamo felici.
E se impariamo a riconoscere tutte quelle volte che le nostre mancanze vengono cancellate da un sovrappiù d'amore, ci scopriremo persone nuove. Nuove nel capire che la fatica sbandierata per le faccende domestiche, è stata cancellata dal sorriso riconoscente di un figlio. Nuove nel vedere che una ripicca dettata dal nostro orgoglio ha sortito ammenda anziché rivalsa. Nuove nel comprendere che una nostra assenza distratta è stata ricompensata da una cena ben curata.
E soprattutto persone nuove se impareremo a contare i passi compiuti in direzione ostinatamente contraria all'amore, come il servo del racconto così poco avvezzo al provare compassione del fratello, e a contare le occasioni in cui quei passi sono stati perdonati dallo stesso Amore che avevamo offeso.
E allora ci sorge spontanea una domanda: perché continuiamo ad essere da Lui perdonati, e, di conseguenza, perché perdonare “settanta volte sette”?
La risposta, crediamo, è quella chiave che sta al centro del nostro cuore. Siamo perdonati, ancora ed ancora, perché infinito è il desiderio di Dio di vederci al suo fianco nel realizzare il sogno che Lui ha per noi. Siamo perdonati perché Lui è onnipotente nell'amore. Siamo perdonati perché “non si dimenticherà mai di noi”, perché “come una madre consola un figlio, così ci consolerà” il Signore.
E siamo chiamati a perdonare perché “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.”
Questa è la motivazione e questa è la strada di possibilità per superare le nostre fatiche, i nostri orgogli, le nostre naturali inclinazioni a ricevere risarcimento per il danno: vivere per Lui.
Vivere i suoi desideri più che i nostri, vivere i suoi sogni più che i nostri, vivere le sue parole più che le nostre, camminare la sua strada anche quando discosta dalla nostra. E per farlo abbiamo bisogno di una cosa e di una soltanto: imparare ad amare Lui più dei nostri progetti, delle nostre pretese, delle nostre rivalse.
Una strada questa che potrebbe sembrare remissiva, ma che invece ci conduce, con la delicatezza di una madre e la forza di un padre, fuori da noi stessi ad incontrare la gioia vera. Ci conduce a vedere davvero, ad ascoltare davvero, a comprendere davvero, ad amare davvero e a scoprire sulle nostre labbra parole nuove: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici.”

02/09/11

4 settembre 2011 - XXIII domenica tempo ordinario - anno "A"

+ Dal Vangelo secondo Matteo (18, 15-20)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».



Oggi Gesù ci guida lungo un nuovo tratto di strada: ci indica la concretezza e insieme la profondità quotidiana dell'amore. L'Amore che Dio ha immaginato per noi, quel seme posato dentro ciascuno ad immagine di Lui, non è fatto di sogni, o desideri, o astratti misticismi. È un amore che passa dalla carne. La carne del Verbo prima di tutti, e la carne di ogni fratello che vive accanto a noi e che oggi ci è chiesto di “guadagnare”.
Una strada semplice allora, quella a cui siamo chiamati: amare in carne ed ossa le persone che ci vivono accanto, nella concretezza delle nostre e delle loro giornate. E amarle non per particolare sforzo di volontà, ma semplicemente perché l'Amore che Dio ci ha messo nel cuore, e che Gesù ci ha permesso di vivere con il dono di se stesso, trabocca da noi e non può che riversarsi sull'uomo, su ogni uomo, dal momento che ad ogni uomo è destinato.
E così anche Paolo ribadisce e ci spiega: “Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole”.
Per questo vogliamo immergerci oggi in questa routinaria quotidianità fatta di incontri, di relazioni, di legami, di sguardi, di occhi che si incrociano e mani che si stringono. Ci immergiamo in questo debito di amore vicendevole e cogliamo l'intima verità della nostra vita: costruire ogni giorno l'amore che ci è stato affidato.
Affidato a noi nella concretezza di un amico, di un figlio, di un coniuge, di un vicino sofferente o gioioso. Affidato a noi anche quando non riusciamo a scorgere nei visi o nelle parole i tratti dell'Uomo amato da Dio. Affidato a noi perché siamo stati “posti come sentinelle” per il cuore dei fratelli, perché siamo stati destinati a custodire la bellezza della comunione, dell'unità, della danza docile e libera dell'amore. Affidato a noi nella gioia ed affidato a noi nei piccoli o grandi contrasti quotidiani, in cui siamo chiamati a non tradire la Verità per non tradire l'Amore. Ma non la nostra verità, bensì la Sua, quella che sa coniugare giustizia e misericordia, correzione e scioglimento dell'errore, quella che ci vuole “perfetti” non già perché capaci di non inciampare, ma perché sempre certi della possibilità di ricominciare il cammino.
E tutto questo, non da soli, ma tra le braccia accoglienti dei nostri fratelli. Non solo accogliere, ma essere accolti; non solo amare, ma lasciarsi amare; non solo correggere, ma essere corretti; non solo perdonare, ma lasciare che il perdono altrui illumini il nostro cuore.
E sappiamo quanto a volte sia più facile dare che ricevere, quanto spesso l'amore che doniamo riempia i nostri cuori di compiacimento anziché condurli a quella straordinaria debolezza che chiede di essere colmata.
E allora, davanti alla fatica del vivere la semplicità originaria dell'amore, ci restano cuore e labbra solo per la preghiera, perché sappiamo che “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”.
Una preghiera che non è più rito, non è formula imparata nell'infanzia, ma parola pronunciata, colloquio con la sorgente di ogni nostra felicità, e pronunciata in coro, insieme ad altri, pronti come noi a ricevere per poter donare.
“Prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce.”