25/11/11

27 novembre 2011 - I domenica di Avvento - anno "B"

Dal Vangelo secondo Marco (13, 33-37)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».




Inizia un nuovo anno, e come ogni nuovo anno, ci trova ciascuno nelle proprie occupazioni, ciascuno a proseguire il proprio compito, il proprio lavoro, le proprie mansioni domestiche. Arriva un nuovo anno, ma quasi non ce ne accorgiamo, presi dalla nostra quotidianità, che non si interrompe ed anzi, tende a caricarsi di ansia per l'approssimarsi di un Natale, che troppo spesso diventa festa civile, di scambi di cortesia.
E così ci troviamo quasi a desiderare un mondo in cui arrivi pure l'inverno, ma non quel natale. Ci scopriamo a desiderare l'assenza dell'attesa, oppure un mondo in cui l'attesa sia così lunga e sfiancante, da perdere il suo significato e la carica di emozioni, sentimenti e speranze che porta con sé.
Ma persino la letteratura per bambini parla di incantesimi e di streghe, quando descrive un mondo in cui è sempre inverno e mai Natale.
Oggi invece inizia un nuovo anno, ed inizia con la più bella delle attese: l'Avvento, la venuta di quel Gesù che ci ha cambiato la vita. E l'attesa delle attese, l'evento che cambia la storia, non può, non deve, trovarci assuefatti e tiepidi, o addirittura indifferenti.
Vogliamo provare allora, solo per un attimo, ad immaginare ciò che accade in una comunissima casa, comunemente avvolta dalla propria routine quotidiana, in cui si annunci l'arrivo di un bambino: gioia, fermento, progetti, e mente costantemente rivolta a quel piccolo. Lei ricama corredini e segue corsi pre-parto, lui imbianca di nuovo la cameretta. E' l'attesa della vita, l'attesa di una novità che cambierà ritmi ed abitudini, e renderà un uomo e una donna persone nuove, tanto nuove da cambiare persino nome, e diventare Padre e Madre.
Questo bambino, che ancora non si vede, abita costantemente la vita dei due, e dei parenti, degli amici, di chi frequenta la casa. La definiamo attesa, ma è un'attesa abitata. Abitata dalla fiducia, abitata dalla speranza, abitata dalla fedeltà verso l'amore che si sente traboccare.
E così questo anno che inizia, è lì che ci vuole accompagnare, al cuore dell'attesa di Dio. Un Dio che già ora ci sta venendo incontro, e non sappiamo se arriverà "alla sera o a mezzanotte", nel buio dei nostri dubbi e delle nostre fatiche, "o al canto del gallo o al mattino", mentre ci sentiamo forti e pronti per affrontare la storia che Lui stesso ci ha affidato. Ma un Dio che ci ha voluti vigili, svegli, attenti nel preparare la nostra vita al Suo arrivo, perché il nostro cuore sia disposto a ricevere un amore che traboccherà, come sempre, le nostre fragili aspettative.
Quella che oggi comincia é l'attesa della gioia, l'attesa che non delude, l'attesa che ci serve per tendere nuovamente lo sguardo verso ciò che è essenziale nella nostra vita: l'Amore.
Allora vogliamo alzarci ed iniziare questo nuovo anno "vigili" verso il nostro cuore, che a volte, timidamente, si è lasciato indurire dalla quotidianità. Vigili verso le persone che ci vivono accanto, e di cui non sappiamo più scorgere la bellezza. Vigili verso quei figli che Lui stesso ci ha donato, perché non dimentichiamo che educarli è il primo frutto dell'amore. Vigili verso chi bussa alla nostra porta, per annunciargli con la nostra ospitalità, che sta per arrivare in mezzo a noi, un Amore a cui nessuno, purché lo desideri, potrà sfuggire. 

19/11/11

20 novembre 2011 - XXXIV domenica tempo ordinario - Festa di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell'Universo - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (25, 31-46)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».




“Siederà sul trono della sua gloria”. Oggi concludiamo l’anno liturgico, celebrando la regalità del nostro Dio: un Dio che siede sul trono circondato dagli angeli e che dona in eredità il suo regno. E, quasi a consentirci di essere pronti per il giorno della sua gloria, oggi Gesù ci indica con chiarezza la strada per ottenere questa eredità: “ tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.”
Una strada particolare per accostarci alla sua regalità, una strada che ci chiede di identificare il Re con chi ha fame e sete, con lo straniero, il malato, il carcerato. Una strada che ribalta la nostra idea di eredi, ma che è la stessa che Lui stesso ha percorso, nei suoi giorni terreni. E così, oggi, spogliati di ogni orpello o pretesa di onore personale, ci troviamo al cospetto del “come” spendere la nostra vita, per essere veramente suoi seguaci e per ottenere l’eredità preparata per noi da sempre: guardare gli occhi dei nostri fratelli, di chi ci vive accanto nell’anonimato, nell’indifferenza o, peggio, nell’abbandono, e lasciarci interpellare da quegli occhi. Occhi anonimi, certo, ma occhi che per noi, cui è stato spiegato il significato della vita, cui è stata mostrata la strada della felicità, non possono non essere occhi di Re. Perché solo nel momento in cui quegli occhi, quei volti, quelle necessità, diventeranno il comandamento del nostro agire, potremo aprire la nostra vita, la nostra storia, la storia della nostra famiglia, alla felicità. E comprendiamo come allora, tutto il nostro vivere, quel far fruttare i talenti di cui domenica scorsa abbiamo sentito narrare, diviene un vivere “per”, un vivere donando tutto ciò che abbiamo ricevuto, spendendo le nostre ricchezze d'amore senza rammarico e senza parsimonia. Vivere per riconoscere Dio nell'altro, vivere per imparare ad ascoltare la voce di Dio nelle infinite richieste d'amore che ci vengono dalla nostra quotidianità, vivere per spendere la nostra libertà, per giocarla rispondendo mille e mille sì alla domanda di accoglienza che ci viene dai nostri “fratelli più piccoli”.
E la prima strada per apprendere questa vicinanza, questa prossimità, la impariamo proprio nelle nostre case, palestre di relazioni, chiamate ad orientare la vita, a dirigersi verso il mondo, a non impadronirsi della bellezza dell’Amore, ma a nutrirsene regalandolo a chi bussa. Così, ripercorrendo nella mente le cose fatte o dette “per” il nostro coniuge, o “per” i figli, scopriamo quanto il “vivere per”, il fare dell’altro la nostra strada d’incontro con Dio, non esprima la rinuncia incondizionata alla propria libertà, né sia una masochistica forma di sacrificio, ma racchiuda il senso, il significato dell’eredità che attendiamo, l’orizzonte preciso di una scelta di vita, la direzione che Lui stesso ci ha indicato: “andare in cerca della pecora perduta, ricondurre all’ovile quella smarrita, fasciare quella ferita e curare quella malata, aver cura di quella grassa e forte”. Avere cura, rispondere con fiducia, e senza più alcuna paura, a chi ci chiede il rischio di amare. Dare il nome dell’amore ad ogni incontro o relazioni che costruiamo, ad ogni legame che stringendoci ci libera da noi stessi per aprirci a Lui. Avere cura delle fragilità altrui, lasciando che si mescolino alle nostre, senza nasconderci dietro un impaurito: “Quando mai ti abbiamo visto e non ti abbiamo servito?” Solo così potremo prepararci all’incontro più importante della nostra vita, alla relazione d’amore più speciale che ci attende, e solo così potremo, nei nostri semplici giorni, gustare la vicinanza di un Signore che “ci fa riposare su pascoli erbosi, ci conduce ad acque tranquille. rinfranca l’anima e ci guida per il giusto cammino.”

12/11/11

13 novembre 2011 - XXXIII domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (25, 14-30)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».




Servi “buoni e fedeli”, o servi “malvagi e pigri”? Una domanda che interroga il cuore dei nostri giorni, che chiede il senso della nostra esistenza. Una domanda che oggi sentiamo più che mai rivolta alla nostra vita di coppia e di famiglia.
Un giorno, infatti, “un uomo ci consegnò i suoi beni”, mise il tesoro del Suo amore nelle nostre fragili mani. Eravamo lì, davanti ad un altare, con le braccia aperte alla speranza ed al timore del futuro, e Lui ha colmato il nostro abbraccio riversandoci i suoi talenti. Ed oggi guardiamo a quella ricchezza e ci interroghiamo sul fatto che abbia prevalso la speranza e la fiducia oppure il timore. Perché a volte troppo amore fa paura, temiamo di perderlo, di sciuparlo se apriamo troppo le porte della nostra casa. Temiamo che quell'amore che ci è stato regalato possa scomparire, svanire, affievolirsi e allora ci chiudiamo a guardarci l'un l'altro negli occhi. Chiudiamo la porta, evitiamo ogni spreco e, giorno dopo giorno, diventiamo esperti “contabili” della nostra ricchezza. Come quel servo che, temendo il padrone, seppellì il talento, firmando la propria condanna.
E così, senza quasi accorgercene, scambiamo la ricchezza del possesso, con quella dell'amore, che sa moltiplicarsi solo quando è donato, speso, “sprecato” senza riserve. E davvero, sotterrando il talento che ci era stato donato, facciamo della vita a due la “tomba dell'amore”.
Ma oggi ci è indicata un'altra possibilità, un'altra via da percorrere: la via della moltiplicazione.
È possibile, anche per noi, superare la paura di essere i destinatari di un amore che supera ogni limite. È possibile accorgerci che il tesoro che abbiamo tra le mani è enorme, certo, ma Colui che ce lo ha donato non ha avuto timore nell'affidarcelo. È possibile non temere che la Sua luce splenda attraverso i nostri gesti, le nostre parole. Ed è possibile splendere senza presunzione se sappiamo riconoscere che il padrone della luce tornerà a “regolare i conti con noi”. E così accade di veder moltiplicare l'amore di un tempo, di sentirlo crescere nei giorni. E così anche saremo pronti a cercarlo con tenacia quando ci sentiremo smarriti, a difenderlo con ostinazione quando mille piccoli egoismi lo minacceranno, a spenderlo con generosità quando avremo timore che si stia spegnendo a coltivarlo con ogni scrupolo quando non riusciremo più a vedere il tesoro che è realmente.
Questo ci chiede oggi Gesù, lo chiede a ciascuno di noi, e a ciascuna coppia che ha osato, ed ancora osa, promettersi amore per l'eternità: Chi sei tu per avere paura dell'Amore? Sei figlio del Dio della vita, immagine del Dio dell'amore, relazione originata dalla Comunione, perché ti ostini a nascondere il Mio tesoro?
Oggi siamo chiamati più che mai a moltiplicare il tesoro che abbiamo, il tesoro che siamo quando diventiamo trasparenza dell'Amore, guardando al Signore come i nostri figli più piccini guardano a noi, unico riferimento del cammino. Siamo chiamati a rendere ragione di quella ricchezza di Dio che è dentro di noi, in tutti ed in ciascuno, in ogni amore che vive, in ogni amore che soffre, in ogni amore che fatica, in ogni amore che si incarna giorno dopo giorno nella fedeltà, nella pazienza, nei mille gradini scesi e saliti della scala della vita comune.
Perché moltiplicando la nostra, la Sua, ricchezza, noi così fragili, così spesso smarriti, così incerti nei passi, moltiplicando la Sua ricchezza daremo ad altri, inconsapevolmente, la possibilità di fare lo stesso. “Cammineremo, beati, nelle sue vie” e lasceremo che l'amore rompa gli argini della solitudine, della “privacy”, dell'anonimato e corra, finalmente, a mostrare la strada della felicità, della libertà, della ricchezza vera che non sbiadisce e non si consuma.

05/11/11

6 novembre 2011 - XXXII domenica tempo ordinario - anno "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (25, 1-13)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».




“Dieci vergini presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge.” Sagge perché “insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi”, l'olio che permetterà loro di vegliare, di affrontare la notte e l'attesa, di aspettare lo Sposo anche quando tarda e la stanchezza ed il sonno tendono a prendere il sopravvento. La loro è una saggezza strettamente legata all'attesa, alla capacità di prevedere momenti difficili in cui la luce della lampada potrebbe farsi fioca, la fiamma vacillare e l'olio non bastare. Sono sagge perché si preparano a perseverare persino nel buio con il proprio lume tra le mani, nella speranza della festa imminente, che, grazie al loro olio, può divenire certezza.
Un tipo di saggezza che ai nostri giorni sembra ancora più difficile da trovare che non ai tempi di Gesù. Oggi sembra che nessuno sappia più aspettare: si trovano infiniti modi per riempire il tempo pur di non rimanere nell'attesa di qualcosa o di qualcuno di più importante.
Non sappiamo aspettare i tempi dell'amicizia, e il non sentirsi per un po', spesso equivale ad un addio.
Non aspettiamo i tempi di chi ci vive accanto, ed ogni parola, ogni fatica, ogni sorriso hanno valore solo nel momento in cui si realizzano e non raccontano più di un promessa antica che si rinnova ogni giorno.
Non aspettiamo i tempi dei nostri ragazzi, su cui decretiamo sentenza di lampada accesa o spenta, senza curarci di scrutare le riserve d'olio che forse hanno nascosto per mettere alla prova la nostra fiducia.
Non aspettiamo o non sappiamo aspettare, e forse così rinunciamo a fare festa con lo Sposo, rinunciamo alla festa dell'amore, quando arriva a condividere il banchetto della nostra vita.
Perché aspettare e amare sono azioni che spesso si accompagnano.
Aspettare non è inutile noia, ma esercizio di fiducia, di speranza, di tenerezza verso chi attendiamo. E procurarsi il proprio olio è la saggezza dell'amore: significa portare sempre con sé la scorta dei ricordi, la riserva delle motivazioni, la fedeltà alla propria vocazione. Solo con l'olio del nostro amore, potremo continuare a dare luce alla notte. Ed è per questo che l'olio delle lampade non può essere prestato, perché non si può amare con il cuore di un altro, non è possibile fidarsi con la fiducia di un altro, non si può sperare con la speranza altrui.
E questa saggezza dell'amore, che oggi ci sembra così difficile da ottenere, “si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta.”
Perché la saggezza dell'amore è già posta nel nostro cuore e chiede solo di essere ascoltata, quando il buio, la stanchezza, il disorientamento della notte tendono insidie alla nostra fede.
Allora oggi pronunciamo anche noi le parole del salmista “dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua.” Ti cerco, per imparare a trovare la luce che Tu hai posto tra le mie mani. Ti cerco per perseverare nel mantenerla accesa.