18/05/12

20 maggio 2012 - ASCENSIONE del Signore - anno "B" -

Dal Vangelo secondo Marco (16, 15-20)

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.




La scorsa domenica Gesù ci esortava a restare, a fermarci in Lui e con Lui, e oggi invece ci dice: “Andate in tutto il mondo”. Un errore? Un controsenso?
A volte siamo tentati di crederlo. Siamo più inclini, noi piccoli e semplici uomini di Galilea, a rimanere immobili a fissare il cielo. Un po’ come i nostri ragazzi quando, pur rivendicando autonomia e libertà, temono il momento in cui dovranno assumersi le proprie responsabilità, e restano quasi paralizzati nello scoprire che siamo disposti a lasciali fare, a lasciare loro il compito di scegliere la strada da percorrere.
Ma Gesù che sale al cielo, non ci lascia soli nella prova, quasi a voler inconsciamente dimostrare che non ce la possiamo fare. Gesù con la sua partenza e con le sue parole, ci manda al mondo lasciandoci un carico di fiducia totale, la fiducia totale che viene dal suo Amore: irrevocabile, assoluto, incondizionatamente fedele. E quando ci manda, non ci manda allo sbaraglio. Dice “andate”, ma dice anche con quale scopo: “proclamate il Vangelo a ogni creatura”.
E allora comprendiamo che restare e andare sono solo due declinazioni della stessa missione, che Lui stesso ci ha affidato: la missione della gioia e dell’amore. Comprendiamo che quello che ci chiedeva la scorsa domenica e che oggi ci chiede è sempre e solo custodire e coltivare le nostre relazioni d’amore, per essere pienamente felici. Coltivare la nostra coppia, perché non confondiamo la fedeltà ad un progetto con la fissità noiosa della routine. Coltivare l’amore per i nostri figli, imparando da Lui a vivere le quotidiane ascensioni, i quotidiani distacchi che il nostro compito di educatori ci impone. Coltivare l’amore per loro, ed imparare la gioia di donare la libertà, sapendo che ogni nostro figlio, ogni nostro frutto, non è un possesso, ma è stato anch’esso pensato da Lui, per restare e per andare. Coltivare le nostre amicizie, cercarne sempre di nuove e di sincere, per imparare che l’amore non si può imprigionare in uno stereotipo, non si piega agli intimismi, ma è libertà, è come un fiume, che non può non irrigare ciò che incontra.
E coltivare l’amore e la gioia, come Lui ci ha insegnato con la sua vita e con la sua morte, non significa rinchiudersi meschinamente sulle proprie certezze, considerando un tesoro geloso la nostra amicizia con Dio. Coltivare l’amore e la gioia, significa lasciarsi permeare da queste, perché diventino annuncio, perché ad ogni creatura sia proclamata la buona notizia che la felicità esiste ed è possibile. Perché un cuore pieno di gioia parla senza parole, illumina anche nel buio, rispetta l’intimità dell’altro, senza ostentazioni, ma insieme si apre un varco nel cuore di chi incontra. E ugualmente un amore coltivato, è una amore che per sua stessa natura diventa “politico”, aperto e dedito al mondo.
Ma allora quello che Gesù ci chiede non è eroica generosità, o supino servizio: è lasciar uscire dai nostri cuori, dalle nostre normalissime vite, dalle nostre umili giornate, tutta la gioia e tutto l’amore che Lui ci ha regalato. E questi saranno i segni che ci accompagneranno: impareremo a coprire con l’amore, il nostro piccolo amore, le solitudini dell’anima che ci capiterà di incontrare, impareremo a scacciare con il calore della vicinanza, i demòni dell’isolamento, del disfattismo, della non-speranza. Parleremo lingue che pensavamo di non conoscere, perché impareremo a parlare con il cuore più che con le labbra, con i gesti più che con le parole. Prenderemo in mano i serpenti della maldicenza e della critica, e impareremo a bere qualche veleno, quando vedremo i nostri figli apparire “diversi” ed essere derisi, ma senza che questo rechi danno a noi e a loro, perché né i serpenti né i veleni potranno più uccidere la gioia, da quando l’Amore ha vinto ogni morte.
E tutto questo, perché il bagaglio che Gesù ci ha lasciato tornando al Padre, non è un bagaglio di schiaccianti responsabilità su cui pesa il giudizio, ma la consapevolezza che “il Signore agisce insieme con noi”, e che l’unico debito da saldare è quello dell’Amore. 

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